In merito alla questione dei diritti umani sono emerse negli ultimi anni due linee di riflessione principali: da un lato, la ricerca della giustificazione di una tesi universalistica, dall'altro l'urgenza di una loro riclassificazione che miri a identificare un nucleo di diritti umani fondamentali.
La difficoltà di ancorare una giustificazione di tali diritti su basi religiose, etiche, filosofiche, metafisiche, ontologiche, culturali è dovuta alla natura contingente e particolare di queste basi. Come ci ha mostrato l'esperienza di Saint-Just, il quale si "illudeva" di applicare al mondo della società francese del XVIII secolo ideali di virtù politiche del mondo antico, un valore, un bene politico, etico o religioso va considerato in relazione al contesto storico da cui proviene e alle circostanze entro cui si intende inserirlo. Dal momento che difficoltà simili emergono anche su un piano diacronico di confronto fra le culture, secondo lo scenario rappresentato oggi dal pluralismo globale, Salvatore Veca individua un punto fermo ad un livello metateorico, che parta proprio dal disaccordo fra beni e valori. Il linguaggio dei diritti umani, infatti, non è altro che una risposta normativa all'esperienza del male e del disumano, mossa dal fine di porre un argine alla sofferenza socialmente evitabile, di mettere al bando il negativo, e non dal fine di promuovere una qualche forma di vita buona o di bene politico.
Assumendo, dunque, il punto di vista delle vittime e dei più deboli, i diritti fondamentali possono essere riclassificati, come quei diritti che assicurano alle persone la loro sussistenza e il loro spazio di libertà da minacce, interferenze, crudeltà di poteri iniqui e arbitrari per assicurare loro lo status di agenti, che possono scegliere liberamente come perseguire i loro scopi individuali e collettivi.
Si entra così nel vivo del dibattito sulla "giustizia globale", sempre in bilico fra "senso della realtà", di cui è emblematica la riflessione di Hobbes e che tende, anche in questo caso, a sottolineare i confini territoriali e culturali, e "senso della possibilità", nel senso della plausibilità della realizzazione di un tale progetto, di cui invece si fa portavoce Kant. Rispetto a queste interpretazioni, Salvatore Veca tenta di porsi in una posizione intermedia, che prenda sul serio il realismo politico, senza però accettarne la completezza, e che dunque ammetta l'idea di una utopia ragionevole, fondata sulla possibilità di giustizia procedurale minima e sulla considerazione dello sviluppo umano come inevitabilmente volto alla libertà.