La felicità può declinarsi anche nei termini dell’evasione, sostiene Remo Bodei, evasione dalla vita quotidiana e dai limiti che le casualità biologiche e sociali ci hanno imposto. La letteratura funge dunque da detonatore e da operatore di immagini di felicità, propone mondi e vite alternativi al mondo e alla vita che viviamo. Possiamo così passare da una vita all’altra, da un mondo all’altro, arricchendo la nostra esperienza, fornendo un’apertura straordinaria allo spazio ristretto della nostra vita quotidiana. E vivere altre vite significa crescere: cresciamo infatti anche grazie all’intrecciarsi in noi dei diversi personaggi di cui abbiamo vissuto, nella nostra immaginazione, la vita. E’ dunque nella rêverie che noi aspiriamo a una vita significativa e perdiamo il nostro principio di individuazione. Tuttavia, prosegue Antonio Tabucchi, gli scrittori del Novecento che nelle loro opere si sono maggiormente avvicinati alla felicità, che ne hanno sfiorato o intuito la portata, sono stati quelli la cui vita è stata indubbiamente più infelice. E i modelli di felicità che emergono dalle opere del Novecento sono innanzitutto negativi. Chi per primo introduce la nozione del limite e del differimento temporale nella percezione della felicità in epoca moderna è Leopardi (L’infinito, Il sabato del villaggio, ecc.), ma il Novecento ha proseguito su questa strada proponendo come ambiti della felicità l’atto mancato, il venir meno al dovere, il sottrarsi, il non dover pagare il tributo dovuto alla realtà. Le forme più piene, e forse banali, della felicità non fanno parte delle opere letterarie del Novecento, quasi che chi vive la felicità non sentisse il bisogno di scrivere o di scriverne. Allo stesso tempo, conclude Tabucchi citando Fernando Pessoa, la letteratura, come tutte le forme d’arte, è la dimostrazione che la vita non basta.