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L’opposizione assoluto/relativo conduce a una duplice visione dell’etica: una che chiamerei «verticale» e «spirituale», fatta di «conoscenza» o consapevolezza del Sé, che individua di conseguenza nell’ignoranza (avidya) il male, e una che chiamerei «orizzontale» e che riguarda i rapporti con gli altri uomini in seno alla società civile. La prima visione è propria, in particolare, del samnyasa, ovvero dell’esperienza monastica di distacco dal mondo, nella quale riemerge il valore della singola persona di contro a quello della «casta», che caratterizza la vita sociale degli hindu; nella seconda l’etica assume un carattere «relativo», perché viene rapportata non tanto alla persona o alla coscienza individuale, quanto piuttosto alla funzione che ciascuno svolge nel contesto sociale, cioè alla casta. Dal momento che gli uomini non sono uguali fra loro, la valutazione di un atto è condizionata dalla stima della funzione di chi lo compie e di chi lo subisce e il comportamento varia a seconda che l’azione umana sia rivolta a persone di pari dignità, oppure a superiori o a inferiori. Non solo, ma sulla via stessa del progresso spirituale gli obblighi morali mutano a seconda del livello spirituale che si è raggiunto. […]
Ma il dilemma fondamentale, per quel che concerne il comportamento etico, rimane quello fra «attività» (pravrtti) e «inattività» (nivrtti), fra l’agire nel mondo conformemente al proprio dovere di casta (dharma) e la completa rinuncia all’azione nella dimensione del moksa (la liberazione dal divenire); è il dilemma che si palesa come eterna tensione fra il desiderio (che comporta l’azione) e la rinuncia, fra l’ideale di una vita «ordinata» nel mondo che diviene e quello di un totale annientamento che è nel medesimo tempo totale pienezza. Il Mahabharata precisa, a questo proposito, che il dharma caratterizzato dalla pravrtti è stato stabilito per i capifamiglia, mentre l’altro dharma, caratterizzato dalla nivrtti, ha come obiettivo il moksa (XIII, 141, 76 e 80). La risposta forse più completa e articolata a questo dilemma è contenuta nella Bhagavad-gita. Pur sottolineando l’importanza della conoscenza e dell’amore devoto, questo testo sembra privilegiare proprio l’azione; ma si tratta di un’azione del tutto speciale, nella quale si risolve l’eterna tensione di cui ho appena detto. Secondo la Gita, dal momento che «è impossibile per chi ha un corpo rinunciare completamente alle azioni» (18, 11ab) l’uomo deve attenersi al proprio dovere di casta, giacché «è meglio compiere, anche in modo imperfetto, il proprio dovere che adempiere bene il dovere altrui» (3, 35ab e 18, 47ab); nel medesimo tempo, per evitare di contrarre legami, egli deve agire «con animo sempre distaccato» (3, 19) e «abbandonare il frutto delle azioni» (18, 11cd); egli deve, cioè, agire «guardando solo al bene del mondo» (3, 20) e offrire le proprie azioni come un sacrificio al Signore (3,30; 18, 57).
(da S. Piano, Sanatana-dharma. Un incontro con l’induismo, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, pp. 220-222)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
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