In età moderna il governo in senso proprio, cioè parziale, scompare, sostituito da un diverso concetto, la sovranità, costruita attraverso la rappresentanza universale e il mandato libero, in vista della formazione di un ordine politico unitario, razionale e giuridificato, cioè costituito da leggi emanate dalla stessa sovranità. Da questa nuova costellazione concettuale trae la propria essenza, e i propri problemi, la democrazia moderna. Nella modernità il problema fondamentale del pensiero politico non è il governo (chi governa chi), ma determinare chi, perché, e con quali limiti, detenga il sommo potere legislativo. Se il modo classico di pensare alla politica consiste nel chiedersi quale sia la migliore forma politica e quali siano i “migliori” che possono e devono governare, i moderni, invece, non vogliono essere governati da “qualcuno”, per bene intenzionato o illuminato che egli sia. I moderni non si fanno governare dal guerriero, dal saggio, dal filosofo, dal nobile, dal prete, ma da se stessi, ciascuno uguale all’altro (e quindi fuori dalle tradizionali strutture castali e cetualcorporative), e tutti uniti da un potere generale e universale, che nasce da tutti, che rappresenta tutti, e che è valido erga omnes: ossia la sovranità. Tutto ciò nasce dal fatto che i moderni si pongono come problema politico principale non la qualità del governo o dei governanti ma la creazione di un ordine artificiale che garantisca unità e pace. Infatti la modernità politica – lo Stato – nasce dall’esperienza delle guerre civili di religione, che dimostrano che Dio non è più il fondamento adeguato della politica, e che quindi la Chiesa non può più pretendere, con la propria Auctoritas, il monopolio della verità; la modernità politica – lo Stato – è un impressionante spostamento del baricentro della politica verso il potere laico unitario e centralizzato. Lo Stato moderno non nasce democratico: anzi, la sua prima forma è lo Stato assoluto in alleanza – strumentale – con la Chiesa, e la sua prima logica è la neutralizzazione del conflitto attraverso l’assunzione del “politico” – il rapporto amico/nemico – sulla sola persona del sovrano. Ma l’affermarsi dello Stato moderno è accompagnato, in parallelo, dalla riflessione del razionalismo politico, che, per quanto immediatamente ineffettuale, continuamente rettifica la realtà e la riporta alla sua possibile declinazione razionale. Così, il fatto storico che la politica vada fondata sulla rinuncia alla verità e al dogma, diventa, nel pensiero razionalistico, l’esigenza che la politica vada interpretata come costruzione umana di un artificio razionale, potente ed efficace ma non superiore alla ragione umana.
Questa artificialità della politica moderna implica anche che la modernità si congedi da ogni finalità della politica diversa dalla mera conservazione della vita fisica dei cittadini: infatti, fin dall’inizio dell’età moderna – grazie a un filosofo che non passa certo per democratico, cioè Hobbes, il cui pensiero ha fatalmente catturato la democrazia – si sa che non esistono né migliori, né peggiori, e che anzi esiste uno stato di natura nel quale gli uomini sono tutti uguali, e tutti in pericolo; e che la politica dovrà avere come obiettivo – un obiettivo che un pensatore antico non avrebbe ritenuto degno di uomini liberi, quanto piuttosto un’aspirazione da schiavi – quello di salvare la vita dei singoli; un obiettivo “basso” che prende il posto del perseguimento della Gloria o del sommo Bene. […] La politica moderna quindi è centrata sulla consapevolezza che l’ordine, l’unità, la pace, la salvezza (e anche lo sviluppo) degli individui, sono i propri fini; e poiché non sono condizioni naturali, possono essere perseguite solo in una dimensione di artificio razionale.(da C. Galli, Il disagio della democrazia, Torino, Einaudi, 2011, pp. 19-21)*
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