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Da un lato c’è un uomo che non riesce a dimenticare, Solomon Veniaminovič Šereševskij, raccontato dal grande neurologo sovietico Aleksandr Lurija nel Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla; poi c’è un altro uomo, Henry Molaison, che invece non riesce più a formare alcun ricordo, raccontato in un altro classico della psicologia, Prigioniero del presente, della neuroscienziata statunitense Suzanne Corkin. Troppi ricordi da un lato, nessun ricordo dall’altro. In mezzo ci siamo noi e i “nostri” ricordi, a cui siamo così tenacemente attaccati, al punto che c’è chi parla addirittura di un “dovere della memoria”, anche se si comincia a parlare pure di un “diritto all’oblio”. Quello che sembrava essere un problema psicologico è subito, invece, un problema etico. L’esistenza umana sarebbe impossibile senza ricordi; o meglio, forse una vita smemorata sarebbe possibile, ma sarebbe una vita molto diversa da quella che conduciamo normalmente. Ce lo ricorda (!) anche il fatto banale che dire di qualcuno che è “smemorato” non è certo un complimento. Per non parlare di tutti quegli esseri umani che hanno perso la memoria – spesso in conseguenza di una malattia neurodegenerativa – e che tuttavia, almeno in una fase del decorso di questa malattia, possono condurre esistenze che per noi (quelli che ancora si ricordano chi sono) sono disperate, ma forse per loro non lo sono. Non sappiamo che vita sia, una vita del genere, una vita senza ricordi. Ma è sicuramente una vita. […] Anche se la dimenticanza non gode di buona stampa, in realtà una memoria “perfetta” non solo non è (praticamente e teoricamente) possibile, ma soprattutto renderebbe la vita impossibile. Le riflessioni di Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita forse sono ancora del tutto attuali. Meglio non dimenticarle.
(da F. Cimatti, La fabbrica del ricordo, Il Mulino, Bologna 2020, pp. 7-11)*
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