Nella Grecia di età arcaica e di età classica la navigazione costituisce la principale modalità di spostamento. Il mare, infatti, è un elemento essenziale per le città greche. Non mancavano ovviamente le occasioni nelle quali i Greci viaggiavano via terra (molto spesso a piedi, ma anche con i carri), ma il sistema delle strade era poco sviluppato, a differenza di quanto avveniva nella contemporanea civiltà dei Persiani e a differenza di quanto faranno, qualche secolo dopo, i Romani, i quali – come è noto – organizzarono un sistema di strade molto efficiente e ancora attivo ai nostri giorni. La navigazione per mare avveniva in modo molto diverso dalle moderne “traversate”: i Greci navigavano principalmente lungo costa (si tratta del cosiddetto “cabotaggio”, cioè la navigazione da capo a capo), perché i pericoli derivanti dai viaggi per mare erano davvero numerosi. Saper mantenere il timone di una nave necessitava di grandi competenze, ed esisteva una figura (il kybernetes, una parola che si ritrova nel latino gubernare e poi nell’italiano “governare”), che poteva godere di grande prestigio in questo ambito. Le difficoltà della navigazione erano conosciute a coloro che dovevano mettersi in viaggio ed esistevano – come accade anche oggi – dei luoghi il cui passaggio era difficile da realizzare. Trattandosi di navigazione lungo costa, si trattava spesso di promontori, che era complicato doppiare e che registravano un elevato tasso di naufragi. Uno di questi era il capo Malea, a sud del Peloponneso. Erano molte le ragioni che spingevano a intraprendere un viaggio. Si poteva viaggiare per commercio, e questo è il motivo della fondazione di molti porti commerciali (gli empori, per usare una parola che deriva direttamente dal greco); si viaggiava per celebrare feste religiose (sull’isola di Delo, per esempio, era celebrata un’importante festa per Apollo, e tutte le città inviavano un coro per cantare inni al dio); ma si viaggiava anche per portare danno agli altri e saccheggiare le navi di passaggio (per questo motivo il denaro prestato in caso di commercio che comportasse viaggi per mare era soggetto a tassi di interesse altissimi, perché il rischio di non arrivare a destinazione e di essere derubati era più che concreto).
Il dialogo tra il Ciclope e Odisseo – riportato nel IX canto dell’Odissea – ci dice molto sui viaggi per mare dei Greci. L’incontro tra stranieri si caratterizza prima di tutto per la necessità di identificazione e provenienza: «Stranieri, chi siete? Da dove venite, viaggiando sul mare?», chiede Polifemo. Subito dopo, le domande del Ciclope consentono di riflettere sulle principali caratteristiche, non tutte pacifiche, del viaggiare per mare nel mondo greco antico. Ci sono i commercianti («State vagando sul mare per commercio?»), ma ci sono anche coloro che usano il mare come modalità di assalto: si tratta di forme di pirateria che erano molto diffuse nella Grecia antica. Odisseo dichiara l’identità del gruppo di cui fa parte («Siamo Achei») e illustra la provenienza del viaggio («di ritorno da Troia!»). Anche in questo caso emerge uno dei tratti più rilevanti dei viaggi per mare dei Greci, vale a dire l’estrema difficoltà, da parte dei naviganti, di misurarsi con le avverse condizioni del mare e dei venti. Odisseo e i suoi compagni sono stati deviati da venti diversi nel difficile viaggio di ritorno che li separa dalle loro case, alle quali desiderano tornare. Dopo la richiesta e la dichiarazione di identità, il tentativo di realizzare un corretto rapporto di ospitalità si conclude con il rituale della supplica. Odisseo e i suoi compagni si gettano alle ginocchia di chi li dovrebbe ospitare e chiedono di ricevere un dono, secondo la consuetudine che lega colui che è ospite e colui che è ospitato (il quale, a sua volta, darà all’altro dei doni). La supplica coinvolge la richiesta di rispettare gli dèi: Zeus, in particolare, è colui che garantisce il rispetto degli ospiti e dei supplici, più in particolare è il dio che tutela il diritto all’ospitalità dovuto agli stranieri, «che sono sempre degni di rispetto», come si legge nel poema omerico.
(da A. Taddei, Il mostro che non accoglie gli ospiti: il Ciclope, in Educare all’antico, vol. V: I viaggi, il viaggio, Pisa, Edizioni ETS, 2009, pp. 63-70)*