Nel mondo antico si offrivano agli dèi anche incenso e cibi vegetali; d’altro canto, non tutti i sacrifici cruenti comportavano il consumo della carne della vittima da parte di chi offriva o celebrava il sacrificio.
Nell’antichità greca, a Roma, nel mondo biblico e nelle culture vicine, in particolare, si distingueva fra sacrifici cruenti in cui tutta la vittima era offerta alla sfera extraumana (olocausti) o distrutta (sacrifici espiatori) e sacrifici cruenti che sfociavano nella consumazione da parte degli umani di porzioni della vittima – con relativo banchetto carneo e processi ben ordinati di distribuzione e di consumazione delle parti. Siccome in linea di principio le società antiche mangiavano carne solo in queste particolari occasioni sacrificali, molti studiosi hanno esaminato, negli ultimi anni, il sacrificio cruento di questo genere appunto come un’occasione di commensalità – fra uomini e dèi; all’interno del gruppo dei sacrificanti – dotata di regole proprie e di enorme valore simbolico.
A questa logica della commensalità sacrificale, centrale nella società antica, si sottraevano alcuni “settari” che rifiutavano la cruenta mensa comune e seguivano diete speciali: è il caso dei cosiddetti “orfici” e dei cosiddetti “pitagorici”. Ma anche quella stessa dieta sacrificale era altamente selettiva: i Greci non sacrificavano (e non mangiavano) il bue aratore; agli Ebrei della Bibbia era vietato il porco; gli egizi non uccidevano vacche e (tranne che in casi festivi eccezionali) non si cibavano di suini. Nonostante rifiutassero la commensalità sacrificale, i “settari” e i “filosofi” non avevano né la volontà né la forza di distruggere il sacrificio. Il sacrificio crollò – ancora, almeno in linea di principio – sotto i colpi del rifiuto cristiano, più aggressivo. Ma i Cristiani 1) avevano una propria commensalità sacrificale; 2) continuarono l’uccisione consacrata degli animali.
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