Spero, anche se nutro dubbi, che siano pochi oggi i cristiani che continuano a sostenere come una cosa che va da sé che solo nel cristianesimo (Nuovo Testamento) ci viene rivelata la paternità di Dio. Basta partecipare a una liturgia sabbatica in qualsiasi sinagoga, per rendersi conto con quanta emozione, fiducia, fede (e, spesso, sofferenza) l’ebreo si rivolge al Dio dei padri e Creatore di tutto, come al «Padre nostro che sei nei cieli», esattamente come Gesù ci ha insegnato a pregare. Un padre che è certo un limite alla nostra libertà tutte le volte che la usiamo contro un nostro fratello (cf. Gen. 4,9: che ne hai fatto di tuo fratello?), contro un uomo, chiunque egli sia, amico o nemico, e che veglia sull’esigenza di giustizia che deve reggere i rapporti umani, perché senza di essa non c’è civiltà umana, solo con essa si può parlare di una vera civilizzazione. Un padre che però rispetta la nostra libertà, anche quando camminiamo per strade sbagliate, continuando a richiamarci alla Teshuvà (= conversione), a fare della nostra libertà un uso responsabile, a usare cioè della nostra libertà a favore dell’altro e non contro l’altro: ove noi violiamo la legge della fraternità, certo dobbiamo pagare un prezzo presso il tribunale umano e presso il tribunale divino. Ma un padre che rimane «padre» nostro anche in questo caso e non ci abbandona, non ci ripudia, ma sa trovare dentro di sé risorse inesauribili di amore e di misericordia, per cui l’ultima sua parola è «perdono», «riconciliazione». Perdono – ritorno all’umano – che è possibile solo dopo la sanzione, ma una sanzione che apre la porta del «ritorno alla casa del Padre» (non siamo davvero lontano da Lc. 15: la cosiddetta parabola del figlio prodigo!). È a tutto ciò che l’ebreo pensa quando si rivolge a lui come Padre e trova nella sua paternità l’origine di ogni cosa buona. Nella tradizione ebraica si prende sul serio Dt. 8,5 (apparentemente un testo ingenuo): «Tu riconoscerai dunque nella tua coscienza che l’Eterno, tuo Dio, ti castiga come un padre castiga suo figlio». C’è quindi nella paternità divina un’inevitabile middat ha-din (misura di rigore): la giustizia divina esige la sua manifestazione nel tribunale terrestre. Ma c’è questa middat ha-din, perché la medesima paternità possa sprigionare la misura della misericordia in vistadella ricostituzione della fraternità umana: «Non sta infatti scritto (Es. 34,17): "L’Eterno conserva il suo favore per mille generazioni, egli sopporta il crimine, la ribellione, la colpa, ma non le assolve. Persegue il misfatto dei padri sui figli fino alla terza e quarta generazione"? E i Rabbini glossano: "ma il suo favore lo mostra per migliaia di generazioni", duemila almeno. Durante duemila generazioni, almeno, si trasmette il favore accordato al merito, durante quattro generazioni il misfatto grida giustizia. La misericordia divina è dunque cinquecento volte, almeno, più forte del suo rigore. Dietro questa aritmetica teologica, c’è un ottimismo morale: con la vittoria riportata sul male niente è mai perso, mentre la vittoria del male ha solo un tempo (limitato) a sua disposizione» (E. Lévinas, Nouvelles Lectures Talmudiques, 1996). Credo che questo sia il messaggio centrale di tutto l’Antico Testamento: l’UNO creatore di tutto e di tutti, sorgente di ogni vita.
(da P. Lombardini, Cuore di Dio, cuore dell’uomo. Letture bibliche su sentimenti e passioni nelle Scritture ebraiche, Bologna, EDB, 2011, pp. 99-100)*
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