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Ciò che si fa valere, attraverso il riconoscimento della varietà di forme irriducibili del religioso, è la possibilità di una diversa apertura al divino dell’esistenza, che interpreti la verità di ogni rivelazione storica e di ogni interrogazione filosofica come manifestazione della prossimità inafferrabile del mistero. Una teologia dell’assenza, come compito non solo della filosofia ma anche delle teologie confessionali, presuppone pertanto un’ermeneutica della finitezza, che sappia concepire la “trascendenza” del vero non in termini dogmatici, ma in relazione al carattere necessariamente finito di ogni rivelazione. Una verità che non diventa la preda di alcuna dottrina o confessione di fede si sottrae alle pretese esclusive di ogni dogmatismo, ma non autorizza per questo l’indifferentismo relativistico, che caratterizza per molti aspetti la situazione attuale della filosofia e della teologia. Intesa rettamente, la relatività del vero, anziché essere contrastata in modo violento, deve essere riconosciuta come il destino della verità che si annuncia come tale alle esistenze finite. In quanto verità finita essa chiama infatti alla responsabilità del confronto, non concedendo a nessuno il diritto di rivendicare un privilegio indiscutibile rispetto a qualsiasi altra esperienza. La prova della fedeltà di ciascuno verso la verità che gli è destinata diventa precisamente la capacità di mettersi in discussione per poter comprendere, non già l’ostinata chiusura alle religioni degli altri, in base al presupposto di doverli convertire. Nessuno è signore della verità che suscita, con i suoi appelli molteplici, le differenti risposte degli uomini. Ma la verità, che tiene in discorso i diversi interlocutori in virtù del suo destino enigmatico, invita a cercare senza tregua ciò che resta da dire e da pensare al di là di ogni definizione dogmatica, filosofica o teologica, che si presuma formulata per sempre. Solo la verità che si fa nel tempo si annuncia infatti come la verità del tempo. E se tanto la filosofia che la teologia amano pensare che la verità debba significare alla fine profonda armonia, occorre tuttavia che rinuncino alla pretesa di disporre del suo segreto, perché l’armonia della verità non sarà mai quella accertabile in superficie – per lo più esteriore, se non coatta –, ma quella nascosta che non sta nella disposizione di alcuno. Come ammonisce la parola più antica «harmoníe aphanès phanerês kreítton», “l’armonia che si cela è più forte di quella che si manifesta”.
(M. Ruggenini, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Milano, Bruno Mondadori, 1997, pp. 14-16)
Riferimenti Bibliografici
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