I biografi di Benjamin Franklin ci informano che, fin dalla più tenera età, colui che sarebbe divenuto uno dei fondatori degli Stati Uniti d’America era dotato di un notevole senso pratico. Benché fosse un bimbo molto pio, trovava terribilmente noiose le preghiere che precedevano e concludevano ogni pasto. Un giorno, mentre assisteva alla preparazione di un grande barile di conserve sotto sale, provviste per l’inverno, egli disse a suo padre: “Mi pare che se recitaste ora, una volta per tutte, la vostra preghiera sull’intero barile, faremmo una enorme economia di tempo (a vast saving of time)”.
L’interesse di questo aneddoto risiede nel fatto che mette immediatamente il rito in relazione con il tempo. E che non si potrebbe esprimere più chiaramente il rifiuto di comprendere quello che il rito si aspetta da noi. Quando si prende sul serio l’esigenza rituale, si percepisce immediatamente che non si tratta di fare del tempo dedicato al rito un frammento del tempo generale. Non si tratta con il rito di perdere o guadagnare tempo, ma, attraverso il rito, di costruire il tempo. Quel che il giovane Franklin si rifiuta di capire è che le preghiere che accompagnano il pasto sono destinate a trasformare, se si preferisce a sacrificare, non una data quantità di cibo, ma l’atto stesso di mangiare.
Per quel che mi riguarda, prenderò Franklin in contropiede e, basandomi su alcuni esempi dell’India antica, tenterò di presentare una difesa e un’illustrazione del rituale. Più precisamente: un’illustrazione, cioè un rischiaramento che tenterò di proiettare su questi esempi, e una difesa dell’idea che è interessante e forse fecondo studiare il modo in cui una data cultura, in questo caso la cultura dell’India antica, glorifica ma anche sottopone ad analisi la propria tradizione rituale.
Insisto dunque sull’importanza del rituale, cioè sulla necessità per lo storico, l’antropologo, il filosofo e credo anche l’analista di prendere coscienza non solo della multiforme realtà del mito, ma anche e soprattutto della riflessione, della speculazione, della costruzione intellettuale che sul rito si fonda. Il che non significa, beninteso, che io mi presenti come un partigiano del rito in quanto tale. Sono anzi fortemente diffidente nei confronti di chi intende combattere il disincanto del mondo attraverso non so quale ritualizzazione deliberata, amministrata a fini terapeutici. Se, come tutti, posso essere affascinato dalla bellezza di una cerimonia (ci si dovrebbe del resto interrogare sul significato di questa espressione che torna così spesso alla penna degli antropologi: ‘un rituale sontuoso’, ‘un rito magnifico’), e sono pronto a lasciarmi vincere dall’emozione che mi sembra talvolta – non certo sempre – invadere gli individui e i gruppi che prendono parte alla cerimonia, io mi sforzo però anche di non dimenticare che il rito è routine e ripetizione e che può essere una prigione per lo spirito.
Ed è importante sapere – lo sottolineo ancora una volta – che, almeno nell’India vedica, il rituale, chiaramente percepito e definito come un sistema di obblighi e costrizioni, ha dato luogo a un intenso lavoro non solo di esegesi e interpretazioni, ma anche di astrazione e teorizzazione.
Riprendendo la formula con la quale si riassume scherzosamente la posizione di Claude Lévi-Strauss a proposito del rito: ‘smettiamo di gesticolare, classifichiamo’, io direi che la parola d’ordine nell’India antica potrebbe essere: classifichiamo le nostre gesticolazioni, vediamo come si articolano le une sulle altre, vediamo quel che le caratterizza come riti. Se il rito è una prigione, lo spirito indiano ha saputo esplorarlo meravigliosamente e ha tratto profitto da questa ricerca per mettere a punto strumenti intellettuali, nozioni, forme di interrogazione che hanno subito trovato applicazione in altri ambiti, soprattutto in quello della lingua: scienza del rituale e grammatica nell’India brahamanica camminano insieme, si forgiano terminologie e concetti comuni e si rafforzano l’una con l’atra.
Riferimenti Bibliografici
- L. Bansat-Boudon, Poétique du théâtre indien. Lectures du Natyasastra, Ecole Française d’Extrême-Orient, Paris, 1992;
- M. Biardeau, L’Induismo. Antropologia di una civiltà, Mondadori, Milano, 1985;*
- M. Biardeau, C. Malamoud, Le Sacrifice dans l’Inde ancienne (1976), PUF, Paris, 1996;*
- C. Conio (a cura di), La parola creatrice in India e nel Medio Oriente, Giardini, Pisa, 1994;*
- D. de Coppet (a cura di), Understanding rituals, Routledge, New York, 1992;
- L. Dumont, Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Adelphi, Milano, 1991;*
- W. Halbfass, India and Europe. An Essay in Understanding, SUNY Press, Albany, 1988;
- L. Kapani, La notion de samskara, De Boccard, Paris, 1992-3, 2 vv.;
- C. Malamoud, Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell’India antica, Adelphi, Milano, 1994;*
- C. Malamoud, J.-P. Vernant, Le temps de la réflexion, VII, Gallimard, Paris, 1986;*
- Oubli et remémoration des rites: histoire d’une repugnance, di C. Malamoud et al., in «Archives des Sciences Sociales des Religions», XXXIX, 1994, n. 85;*
- L. Renou, L’Induismo, Xenia, Milano, 1994.*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.