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Per i pensatori cinesi dell’epoca classica, biografia e agiografia si sovrappongono in modo pressoché sistematico e Laozi, il «Vecchio Maestro», noto anche come Lao Dan (Vecchio Dan), non fa certo eccezione. A ciò va aggiunto che la natura delle opere ascritte ai cosiddetti «Maestri» (zhuzi) che vissero tra il V e il VI secolo a.C. è sostanzialmente collegiale, frutto della stratificazione di materiale gradualmente aggiunto e adattato da discepoli che tributavano il più vivo rispetto verso pensatori identificati come punti di riferimento morale e dottrinale. Al di là della loro storicità, le figure di maggior spicco all’interno dei diversi orientamenti di pensiero si trovarono, così, a essere identificate come «autori» di opere che, in realtà, non avevano scritto di proprio pugno. L’autorevolezza di un «autore», quindi, passava attraverso la mancata responsabilità diretta nella stesura di quell’opera che avrebbe consegnato ai posteri l’immagine esemplare di un saggio che non era, in sé, «creatore» bensì «oggetto di creazione». Non stupisce, dunque, come le più recenti ricerche evidenzino la debolezza dell’interpretazione secondo cui Laozi sia stato l’autore dell’omonima opera, celebre anche con il titolo Daodejing (Scrittura canonica del Dao e della [Sua] Possanza, più spesso tradotto Il Canone della Via della Virtù). (…)
La prima «biografia» di Laozi a noi giunta fu compilata da Sima Qian (circa 145-86 a.C.), che nello Shiji (Memorie di uno storico) tentò con evidente difficoltà di far luce sulla sua identità: «Laozi era originario del villaggio di Quren – scrisse Sima Qian – che sorgeva nella prefettura di Li presso il distretto di Ku, nel regno di Chu. Il suo cognome era Li, il suo nome proprio Er, il suo appellativo Boyang e il suo nome postumo Dan. Egli era uno storiografo incaricato della custodia degli archivi reali della dinastia Zhou».
Un avvio così minuzioso lascia presagire un resoconto circostanziato, ma il resoconto che segue si rivela discontinuo, a tratti cauto, costellato da «…si dice che…, alcuni riferiscono che…» e a tratti fin troppo audace. L’impressione è che Sima Qian abbia cercato di colmare le lacune dei riscontri a sua disposizione fabbricando un ritratto che ha il sapore di «sintesi» tra vari personaggi: l’archivista della casa reale Zhou, al quale Confucio chiese istruzioni sui riti; l’autore del Laozi, nonché fondatore della tradizione «daoista»; un altro pensatore di Chu, Lao Laizi, contemporaneo di Confucio, al quale Sima Qian ascrive un’opera in quindici capitoli che tratta delle applicazioni pratiche degli insegnamenti degli Esperti del Dao; lo storiografo Dan (Taishi Dan), che nel 374 a.C. predisse la supremazia del regno di Qin. «Alcuni dicono che (Taishi) Dan fosse Laozi, altri lo escludono. Nessuno al mondo conosce la risposta. Laozi era un insigne gentiluomo (junzi) che decise di ritirarsi dalla vita pubblica», sentenziò Sima Qian. Un particolare spicca: i caratteri dan (in Lao Dan) e dan (in Taishi Dan) possono essere considerati, al di là della loro difformità, varianti in grado di esprimere entrambe una parola omofona che significa «dalle grandi orecchie con i lobi pendenti». Anche er, carattere impiegato per indicare il nome proprio di Laozi, significa «orecchio». Questa ripetuta allusione non è casuale, poiché le grandi orecchie esprimono un tratto fisico peculiare degli immortali. Guarda caso, prima di salutare il mondo e scomparire, Laozi avrebbe raggiunto le estreme lande d’Occidente – luogo solitamente associato alla terra degli immortali – e, infine, consegnato nelle mani di Yin Xi (l’ultimo guardiano dislocato nell’avamposto di frontiera più remoto) un testo di sole cinquemila parole nel quale era custodita la sua somma saggezza. (…)
Laozi divenne ben presto il vero Maestro per quanti erano dediti alla ricerca dell’immortalità e alla contemplazione mistica del Dao. Assurto al rango di Immortale, Laozi avrebbe subito ripetute reincarnazioni nei secoli, offrendo soccorso a sudditi e imperatori perché fossero assistiti nel tentativo di restaurare l’armonia interiore e la pace sociale. L’elaborazione di un mito attorno alla figura di Laozi trasse vigore dall’apporto graduale di elementi nuovi, ma anche dall’estensione e dall’adattamento di particolari già presenti nella leggenda «primitiva». Per fare un esempio, il viaggio verso Occidente intrapreso da Laozi venne motivato, nel tempo, dalla necessità di convertire le popolazioni «barbare» dell’India e dell’Asia centrale, alle quali si sarebbe manifestato come «Buddha». Elementi autoctoni derivati dalla tradizione cinese si sposarono ad altri riconducibili al buddhismo e a differenti culture centro-asiatiche, agevolando il processo di divinizzazione del «Vecchio Maestro» che, stando ad alcune interpretazioni, divenne il «Vecchio Bambino» sulla base di una suggestiva doppiezza di significato propria del termine zi «maestro; bambino». Ciò contribuì ad alimentare la convinzione che il Vecchio Saggio nacque, già canuto e in sé perspicace, da un parto miracoloso di Madre Li, che lo partorì dall’ascella sinistra.
(da A. Andreini, Quale testo? Quale autore?, in Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, Torino, Einaudi, 2018, pp. VII-X)*
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