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Eppure resta, nel fondo, un desiderio: che quel che si è, si è costruito di relazioni, si è compiuto di bene, non venga cancellato definitivamente. Se così non fosse, non si capirebbe perché di fronte alla morte si avverta repulsione, si affaccino energie impensate per vincere una battaglia che pure si intuisce sarà persa, il desiderio di vivere diventi più forte.
Se così non fosse, non si capirebbe neppure la cura per il corpo: desiderio di vita e cura del corpo vanno di pari passo. Non potrebbero essere questi gli indizi empirici che gli umani non sono fatti per la morte? E non si potrebbe vedere nelle energie vitali che si risvegliano nell’agonia la traccia di un destino che sta in faccia alla morte e, pur riconoscendo che essa è momentaneamente vincitrice, si rivelerà più forte di essa? […] Gli umani, che pure con la dottrina dell’immortalità hanno cercato di affermare la propria differenza rispetto agli altri viventi, non si accontentano di non morire totalmente: vogliono vivere totalmente; il corpo non è un fardello da deporre a un certo punto dell’esistenza: è la persona nel suo manifestarsi e nel suo costruirsi; senza di esso non si sarebbe umani. Per questo l’annuncio della risurrezione non soltanto confessa la potenza vivificante di Dio, ma dichiara pure che il desiderio degli umani di non morire non è illusione: corrisponde piuttosto alla loro struttura; è traccia del loro destino. Ovvio che questo può giungere a realizzazione solo grazie a chi lo ha stabilito. Non è solo l’anima a valicare la morte: è la persona umana nella sua interezza, benché la morte nella sua potenza distruttrice dissolva tale interezza. Avevano ragione gli antichi autori biblici a connettere risurrezione e creazione. Nell’una e nell’altra ne va dell’identità di Dio. Credere solo nella creazione e non nella risurrezione coincide con il depotenziare l’identità di Dio rendendola principio di un’esistenza per la morte, la quale alla fine mostrerebbe la sua supremazia.
È in questa prospettiva che si inserisce anche l’affermazione credente di una palingenesi dell’universo: la dimensione cosmica non è assente dalla visione cristiana del compimento futuro. Con accenti quasi lirici, lo ha ricordato la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, del concilio Vaticano II: «Ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l’universo. Passa certamente l’aspetto di questo mondo deformato dal peccato. Siamo però edotti che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono dal cuore degli uomini. Allora, vinta la morte, i figli di Dio saranno risuscitati in Cristo, e ciò che fu seminato nella debolezza e nella corruzione rivestirà l’incorruzione; e restando la carità con i suoi frutti, sarà liberata dalla schiavitù della vanità tutta quella realtà che Dio ha creato per l’uomo».
Gli esseri umani non possono stare senza il loro habitat, come non possono stare senza il loro corpo. A questo proposito si potrebbe riaccendere il contrasto tra le affermazioni della fede e le previsioni della scienza: come si può immaginare la “nuova terra” o il “nuovo cosmo”? O ancora: come saranno gli umani risorti? Nel corso dei secoli gli interrogativi hanno trovato risposte ritenute ingenue da chi legge le descrizioni dimenticando che si tratta di metafore (la dimenticanza in verità è riscontrabile anche in chi usava tali metafore; non a caso si è parlato di “fisica dei fini ultimi” per denunciare i limiti della riflessione escatologica scolare). E la metafora, lo si sa, non è un semplice escamotage per sfuggire all’urgenza degli interrogativi; è piuttosto dichiarazione del limite del linguaggio umano quando si tratti di dire ciò che non è ancora oggetto di esperienza, eppure deve essere detto perché riguarda gli umani. Nelle metafore che parlano di “cieli nuovi” e “terra nuova”, di “corpi risorti” dotati di trasparenza, agilità, lucentezza, si delinea la pienezza di ordine e di vitalità che può venire solo da chi sta al principio di ogni realtà e ha destinato gli umani, vertice di questa, a partecipare della sua pienezza sul modello di Gesù risorto.
Credere in Dio cessa pertanto di apparire affermazione di un essere assoluto; diventa confessione che il datore originario della vita non smette di essere tale neppure di fronte alla potenza momentaneamente invincibile della morte. Credere in Dio è confessare che colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti darà la vita anche ai nostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in noi (cfr. Rm 8,11). Qui tace la scienza per lasciare spazio solo al desiderio. È questo la traccia della destinazione degli umani alla beatitudine. Ma la decifrazione di esso è possibile solo grazie alla rivelazione, cioè al dono anche di un linguaggio che abilita a sperare.
(da G. Canobbio, Destinati alla beatitudine. Breve trattato sui novissimi, Milano, Vita e Pensiero, 2012, pp. 124-127)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
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