Il 15 febbraio 2003 un numero immenso di persone dimostrarono nelle maggiori città d’Europa e del mondo per la pace e contro l’ormai imminente attacco all’Iraq: un evento che può aver segnato la nascita di un’opinione pubblica europea e in parte mondiale contraria all’uso preventivo delle armi e preoccupata che il vecchio arnese della guerra non rialzasse la testa. Dobbiamo chiedere se, a distanza di anni da quell’evento e la crisi grave che ne seguì, i progetti per la pace che il pensiero filosofico ha avanzato possono riprendere vigore e indicare un cammino. Dobbiamo farlo in un momento molto delicato in cui la responsabilità della politica è in affanno: essa ha visto decadere le sue funzioni, tanto a livello interno quanto a livello internazionale, spesso a favore dell’idea illusoria che il nuovo ordine mondiale sia affare dell’economia e dei mercati. Sono le diagnosi stesse sulla crisi mondiale e le preoccupanti prospettive su eventuali scontri di civiltà a dichiarare la fragilità di tale assunto.
In pochi anni la geopolitica mondiale è passata dall’epoca dell’equilibrio bipolare del ‘terrore’ alla prevalenza egemonica di una sola superpotenza, mentre complessi fenomeni sino ad allora marginali sono intervenuti: crisi ambientale, terrorismo, immigrazioni di massa, gravi difficoltà nel mondo islamico e nel suo rapporto con l’Occidente, segni di nuovi seri attriti politici nello scacchiere internazionale. È più che legittimo chiedersi quale potrà essere l’evoluzione dell’attuale contesto: prosecuzione dell’egemonia? Rinascita in forma aggiornata dell’equilibrio tra le potenze che includa vecchi e nuovi Stati (vedi la Cina e l’India)? Un nuovo multilateralismo che sia capace di muovere verso meno carenti forme di globalizzazione politica e l’istituzione di poteri pubblici sopranazionali e infine mondiali? Il pur fondamentale obiettivo di stabilire regole per la soluzione non-armata dei conflitti tra le parti non è sufficiente: l’esistenza di enormi richieste di giustizia politica globale e di rispetto dei diritti umani pretende di più, e altrettanto la concreta esistenza di un bene comune dei popoli del mondo da assicurare. Non so se ciò significhi che abbiamo bisogno di una nuova filosofia della storia entro cui inscrivere i nostri sforzi verso la pace e la giustizia, ma certo significa rinnovare il nostro sguardo sulla realtà, perché nessuna pace sarà mai possibile se formeremo del problema un resoconto erroneo e incompleto.
Il problema qui impostato, ossia l’edificazione di una società politica mondiale e della pace mondiale che metta fine alla guerra, rispondendo positivamente alla domanda se e come l’istituto della guerra sia eliminabile dai rapporti internazionali, appare il più arduo tra i temi di filosofia politica. La sua straordinaria complessità proviene da due sorgenti: la difficoltà a maneggiare concettualmente una questione dal numero pressoché illimitato di variabili; la possibilità che nel momento dell’azione la volontà esistenziale di scontro bellico, espressa da forze effettualmente in vigore in un certo momento, prevalga su ogni altra considerazione. La doppia difficoltà non deve scoraggiare dall’assumere come imperativo morale che non debbano esservi più guerre. Questo evento sarà un esito del processo che conduce verso una res publica planetaria, per quanto lontani siano la sua attuazione e diversi i modi di concepirla. Nel contempo ritengo che oggi, più di cento o duecento anni fa quando iniziò a porsi il problema di edificare la ‘pace perpetua’, esistano maggiori possibilità di affrontare il problema, nonostante che questo sia nel frattempo diventato più complesso.
(da V. Possenti, Il problema della pace e la globalizzazione politica, in Annuario di filosofia 2006. Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Guerini e Associati, 2006, pp. 51-52)*
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