Oblomov è il grande personaggio di Ivàn Gonciaròv, che pubblica il romanzo omonimo nel 1859, con buon successo, dando la vita al prototipo dell’uomo inerte, indolente, irresoluto, che vive in vestaglia e pantofole appisolato o sul divano o nel letto, col servo Zachàr che brontola e lo accudisce. Ne esce un personaggio deprecabile al primo incontro, ma alla fine del libro assolutamente non disprezzabile; come sono invece i peccatori di accidia che Dante fa correre e pungola nel Purgatorio. L’accidia di Oblomov non è il peccato tradizionale del non fare potendolo; è invece quella cosa più vasta che tutti un po’ almeno conosciamo: è il non essere adatti a questo mondo, alla sua contingenza, al transeunte. E Oblomov è come se fosse uscito al mondo per sbaglio, impreparato, anzitempo. Il suo posto sarebbe ancora nel liquido amniotico dentro la pancia della sua mamma: è sì l’indolente, però è l’indolente che sogna costantemente e con trasporto quello stato di pienezza perduta che era l’infanzia, laggiù, dove il mondo era stabile, naturale, circoscritto, accogliente, e fatto una volta per sempre. Di fronte a questo sogno di perfetta quiete ideale, ogni atto di attività nel presente, ogni darsi da fare, diventa un restringimento, uno sporgersi in fuori, azzardato e soprattutto ingiustificato. E così in Oblomov si riconosce che la vita, attiva o inerte che sia, è qualcosa che scivola via sul suo piano inclinato, e tutte le vite alla fine si eguagliano, in quel dolore irrimediabile che è l’invecchiare (l’essere sempre già vecchi) e morire.
Gonciaròv ha scritto anche Una storia comune e Il burrone, a torto poco considerati, dove ritorna sempre sotto altri nomi il suo oblomovismo. Nel 1856 Gonciaròv fece un viaggio intorno al mondo su una nave da guerra; il viaggio uscì col titolo La fregata Pallade; e anche qui sorprendentemente circola il suo oblomovismo.
Ermanno Cavazzoni