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Pittori che dipingono nella campagna non se ne vedono più, intenti a studiare le cascate di Tivoli, il verde dei boschi intorno a Parigi, la coltre lattea delle nebbie nel Nord. Già nel Seicento, qualcuno si era attrezzato per dipingere a olio en plein air. François Desportes, nella Francia di Luigi XIV, utilizzava nei parchi dei castelli reali un suo specialissimo «léger bagage»: la tavolozza, qualche pennello, piccole scatole di metallo con i pigmenti già preparati. Nel terreno piantava il suo bastone da viaggio, dalla punta acuminata in acciaio. Al bastone fissava un telaio di ferro e tanti fogli da colorare, fermati in alto da un piccolo chiodo. Pittori così non se ne incontrano più, fermi a studiare un cielo di nuvole, gli specchi d’acqua nelle pianure, verdi su verdi di prati e colline. Interrogarsi sulla natura, sulla sua apparente e transitoria bellezza è attività che non si pratica più, nei termini almeno di quella sfida a decifrare e descrivere che portava i pittori a dipingere direttamente dal vero.
Il campo è abbandonato, deserto, da quando la ricerca di una forma concettuale ha riportato l’artista nell’atelier, spente le luci dell’Impressionismo. Ma quella è stata solo l’ultima tappa di un processo che ha conosciuto un’accelerazione fortissima quando il pittore romantico, ispirato all’origine dal motivo reale, varcò le soglie della visibilità, addirittura quelle della coscienza. Quando l’immagine, quella apparente, divenne la nuova frontiera oltre la quale la percezione empirica si rivelava carente, inadeguata. Quando, sull’onda di un cambiamento prodotto dalle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau, i pittori avvertirono i sobbalzi del cuore, le intermittenze del desiderio, l’interferire dell’io, introducendo un modo radicalmente nuovo di pensare il paesaggio. Un paesaggio nel quale riflettersi, nel quale analizzare se stessi per proprietà transitiva, attraverso lo specchio della natura. Paesaggio come luogo del cuore, del sogno, dell’inconoscibile. Spazio larghissimo all’autobiografia, oltre la realtà del visibile: in un ritratto famoso eseguito da Kersting, Friedrich dipinge a finestre sprangate, nello sforzo di cogliere le implicazioni di una natura di cui scruta il “dentro”.
Quando questa attitudine abbia prevalso, quali le strade e i cammini percorsi sono domande assolutamente centrali, a cominciare dal punto di avvio: Piranesi e gli anni Sessanta del Settecento, molto al di qua della linea di confine che segna i territori considerati romantici. A rivedere in sequenza acquerelli e dipinti, emerge infatti lo spazio imponente che si riserva agli artisti del Settecento, a quegli esploratori del paesaggio che, lungo gli assi divergenti del Sublime e di un nuovo sentimento della natura, pacato nel timbro ma tenero nella emozione, aprirono sul tema del paesaggio nei termini radicali di quella pittura che poi si disse, in Europa, romantica. Il filo conduttore – nella scansione temporale di quasi un secolo – è dunque questo sentimento della natura. Che è “nuovo” in quanto non esisteva. Della natura esisteva l’idea, il principio di un ordine cosmico che la governa e la trascende, che l’artista può attingere per dominarla in nome della ragione. Che è altra cosa dal sentimento.
(da A. Ottani Cavina, Terre senz’ombra. L’Italia dipinta, Milano, Adelphi, 2015, pp. 301-305)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
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