L'orrore

Antropologia della violenza contemporanea

  • mercoledì 04 Dicembre 2013 - 17.30
Centro Culturale

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Non è senza problemi che l’orrore può essere inscritto nella costellazione terminologica della paura. Qualcosa di spaventoso c’è ma, più che la paura, riguarda la ripugnanza. Lo testimonia la figura che costituisce l’incarnazione dell’orrore nella mitologia greca, ossia Medusa, l’unica sorella mortale fra le Gorgoni. Strategicamente dislocata dal mito al di là dell’Oceano, nello spazio dell’estraneo e dell’altrove, ben più ripugnante di ogni altro mostro, con i suoi capelli irti e serpentini, essa agghiaccia e paralizza. Secondo la leggenda di Perseo – egli, sì, eroe di una grecità autoctona – sua arma micidiale è lo sguardo: indice di un’affinità fra orrore e visione o, se si vuole, fra una scena inguardabile e la ripugnanza che essa suscita. La morte violenta fa parte del quadro ma non ne sta al centro. Non è questione di scampare alla morte. Al contrario di quanto avviene per il terrore, nel caso dell’orrore non ci sono movimenti istintivi di fuga per sopravvivere né, tanto meno, il travolgimento contagioso del panico. Anzi, il movimento qui si blocca nella totale paralisi e riguarda ciascuno ad uno ad uno. Preso da ribrezzo di fronte a una forma di violenza che appare più irricevibile della morte, il corpo reagisce inchiodandosi e rizzando i peli. Medusa è una testa mozzata. Ripugna, innanzitutto, al corpo il suo smembramento, la violenza che lo disfa e lo sfigura.
L’essere umano, in quanto essere incarnato, è qui offeso nella dignità ontologica del suo esser corpo e, più precisamente, corpo singolare. Benché lo trasformi in cadavere, la morte non ne offende la dignità o, per lo meno, non lo fa finché al corpo morto è conservata la sua unità figurale, quella sembianza umana già spenta e tuttavia ancora visibile, guardabile per qualche tempo prima del rogo o della sepoltura. Incoraggiati dai giochi speculari che appartengono alla leggenda di Perseo, spesso si ipotizza che Medusa rappresenti l’inguardabilità della propria morte. Oltre a essere vera sul piano empirico, la tesi è facilmente argomentabile in base ad alcuni elementi del mito; fra questi: la pietrificazione del corpo che evoca la rigidità del cadavere, e lo specchio che allude all’identificazione del sé nella morte dell’altro. Troppo famigliare e spontanea è tuttavia la nostra ripugnanza per la testa mozzata per poter affermare che si tratti solo di questo. Inguardabile, per l’essere che si sa corpo irrimediabilmente singolare, è innanzitutto lo spettacolo di sfigurazione che il corpo singolare non sopporta. Come testimoniano i suoi sintomi corporei, la fisica dell’orrore non ha a che fare con la reazione istintiva di fronte alla minaccia di morte. Ha piuttosto a che fare con l’istintivo disgusto per una violenza che, non accontentandosi di uccidere perché uccidere sarebbe troppo poco, mira a distruggere l’unicità del corpo e si accanisce sulla sua costitutiva vulnerabilità. Ciò che è in gioco non è la fine di una vita umana, bensì la condizione umana stessa in quanto incarnata nella singolarità di corpi vulnerabili. Carneficine, massacri, torture, e altre violenze ancor più crudamente sottili, fanno parte integrante del quadro. Benché il mito scelga di simboleggiarlo con la testa mozzata di Medusa, il repertorio che l’orrore riserva all’atrocità della sua scena è ampio e articolato.

(da A. Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sugll’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 13-15)*

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.

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