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La storiografia sulla Riforma annette tradizionalmente molto interesse all’individuazione dei «punti di svolta», sia dal punto di vista cronologico, sia da quello contenutistico. Quando avviene e in che cosa consiste esattamente la «svolta riformatrice» di Lutero, o di Zwingli, o di Calvino? Qual è e come si manifesta il rapporto tra la riscoperta della giustificazione per grazia mediante la fede e le radicali conseguenze ecclesiologiche che ne vengono tratte? E ancora: quando e come accade che questioni almeno in parte non nuove acquistino una valenza esplosiva, tale non solo da ridisegnare la mappa della cristianità occidentale, ma da indurre a ripensare in termini radicali la fede cristiana nel suo insieme? L’intreccio di queste diverse formulazioni di un unico ma sfaccettato problema costituisce la sfida decisiva per un’interpretazione storicamente e teologicamente corretta della rivoluzione spirituale del XVI secolo. Che la «riscoperta dell’evangelo» risieda nella centralità dell’annuncio della giustificazione non può essere messo in questione da alcuno. E tuttavia non sono le lezioni sull’Epistola ai Romani o sui Salmi a scatenare la tempesta, bensì le tesi sulle indulgenze. Sia la ricerca scientifica, sia la divulgazione hanno costantemente e giustamente insistito sul fatto che la questione delle indulgenze riveste in quella situazione un’importanza economica e politica superiore a quella svolta in altri tempi, sia antichi, sia recenti. Il fatto tuttavia che nel prosieguo del dibattito essa retroceda assai bruscamente di fronte all’irrompere a cascata di una quantità di altre tematiche, ben più centrali, è indicativo. Certo Lutero, tutto preso dalla sua passione pastorale e teologica e poco incline a pensare in termini di politica ecclesiastica, non ha valutato appieno le possibili conseguenze del suo attacco su quel punto, in quel momento; certo Roma non ha saputo apprezzare la misura dello scontento diffuso in Germania, ma anche nel resto d’Europa, nei confronti del proprio stile di governo della chiesa; certo una serie di circostanze storiche e politiche ha contribuito a concentrare un potenziale esplosivo su una questione teologicamente non centrale. Tutto ciò, però, non spiega ancora (anzi, non spiega affatto) il carattere devastante della deflagrazione. Su scala europea il dibattito sul rinnovamento della chiesa è in corso da oltre un secolo e non è affatto pacato: esso ruota, com’è noto, intorno all’alternativa tra primato papale e primato del concilio. All’inizio del Cinquecento le spinte umanistiche si inseriscono in questa lotta e il programma di un ritorno alle fonti bibliche del cristianesimo, programma tutt’altro che scevro da accenti anticlericali anche feroci, viene formulato da Erasmo in termini che riscuotono il consenso entusiastico di settori amplissimi della cultura europea. È noto che in un primo tempo molti ambienti umanistici guardano a Lutero come a un alleato. Se tuttavia il conflitto tra una cultura scolastica ormai esausta e i nuovi fermenti introdotti dalla filologia e dalle bonae litterae è una chiave di lettura decisiva per comprendere la Riforma svizzera, esso non lo è altrettanto per Lutero. Naturalmente il Nuovo Testamento greco edito da Erasmo interessa alquanto il Riformatore, così come le Adnotationes grammaticali con le quali il principe degli umanisti lo correda. Il baricentro spirituale della sua riflessione, tuttavia, è altrove. Nemmeno il rinnovamento culturale umanistico che attraversa l’Europa è in grado di spiegare quanto accade intorno al nome e alla predicazione di Lutero. Ritengo che ci si possa avvicinare al cuore della questione ascoltando la testimonianza di Friedrich Nietzsche, il quale, dalla sua posizione di avversario acerrimo della fede in Gesù, coglie tuttavia un punto centrale e anzi, un aspetto del punto centrale, laddove imputa a Lutero la responsabilità di avere rianimato quello che a Nietzsche appare un cadavere, cioè il cristianesimo storico, nella fase iniziale della modernità. (…) L’elemento di forza dell’analisi di Nietzsche risiede nella chiara percezione del fatto che la protesta di Lutero non è riconducibile a una esigenza di «aggiornamento» della predicazione. Non si tratta affatto di elaborare il paradosso della fede cristiana al fine di rendere quest’ultima più accettabile alla modernità incipiente. Questo, semmai, è un aspetto (ma solo uno, e nemmeno il principale) del progetto umanistico e, in un senso del tutto diverso, del papato rinascimentale celebrato da Nietzsche. Lutero vuole altro: vuole, come afferma, o piuttosto ringhia, il filosofo, ripristinare la chiesa. Non una nuova chiesa, ma il ripristino dell’unica, vera chiesa di Gesù Cristo è il suo obiettivo. A un certo punto, nello scorcio finale del secondo decennio del XVI secolo, diviene chiaro che la riscoperta dell’evangelo e le istanze difese da Lutero nel dibattito sulle indulgenze non sono compatibili con uno o più aggiustamenti dello status quo; diviene anche chiaro che non è possibile interpretarle come faccende teologiche di scuola né come richiami a una prassi ecclesiale meno lassista. Certo l’evangelo della giustificazione è più grande della chiesa, nessuno lo sa meglio di Lutero, ma i fatti mostrano che non è possibile proclamarlo senza, al tempo stesso, «ripristinare la chiesa».
(da F. Ferrario, Introduzione, in M. Lutero, La cattività babilonese della Chiesa, Torino, Claudiana, 2005, pp. 9-11)*
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