La figura del maestro (maestro artigiano) anticipa di molto quella del maestro di scuola, fin dai tempi in cui i padri trasmettevano ai figli il proprio mestiere e li educavano di conseguenza, delegando poi – quando le comunità si articolarono – tale funzione ai mastri.
Il termine “maestro” deriva dal magister dei romani e dei medievali. Nelle altre lingue europee le loro derivazioni indicano piuttosto il mastro che non l’insegnante. Se in italiano, dicendo maestro si pensa subito al maestro elementare, altrove questo è invece indicato come instituteur, lehrer, teacher o altro. Forse questo ricalco in italiano è venuto dal fatto che i primi rari maestri dell’abc erano spesso part time, gli stessi artigiani che l’industrializzazione aveva posto in crisi occupazionale.
Il mastro era maestro di un’arte. Ma “arte” in che senso? Nel senso di attività produttiva che seguiva particolari regole giuridiche e tecniche: dalle arti più umili (svuota-pozzi-neri, beccai, facchini, ecc.) alle più elevate (architetti, pittori, scultori, orefici, cerusici, setaioli, ecc.). Tutte queste erano dette in blocco “arti meccaniche” o “vili”, all’opposto dalle “arti liberali” (cioè destinate a uomini liberi dalla necessità di lavorare), eredi del vecchio trivio-quadrivio, letterario-filosofiche, il cui studio culminava in un’apposità facoltà. Facoltà con i suoi magistri, propedeutica alle superiori Facoltà di Teologia, Diritto e Medicina. Uno iato quasi sempre incolmabile, sociale e culturale, separava i due livelli. I maestri “liberali”usavano il latino e si ritenevano perciò i soli depositari della cultura. Solo verso la fine del XVII secolo si cominciarono a differenziare le Belle arti (Beaux arts, Schöne Kunsten, Fine Arts) dalle altre “meccaniche”.
I mastri, a differenza di Arti liberali, usavano il volgare, praticavano con gli apprendisti un insegnamento intuitivo e operativo, poco o nulla ricorrendo alla didattica verbale scolastica, secondo una metodologia induttiva e non deduttiva. Ciò non vuol dire che i mastri fossero incolti o addirittura analfabeti: al contrario, dal XIII secolo in poi alcuni di loro daranno sensibili contributi allo sviluppo dei saperi tecnologici e dei prodotti estetici: basta fra i tanti ricordare Brunelleschi, Leonardo, Vasari (come fondatore della storia e della critica d’arte), per non parlare poi dei mastri che un paio di secoli dopo ampliarono il sapere consentendo la rivoluzione industriale (Arkwright, Franklin, Fulton, ecc.). Lo stesso Leonardo si vantò snobisticamente di essere “omo sanza lettere” ossia privo di studi latini, eppure non si può dire fosse proprio analfabeta. Michelangelo, anche lui formatesi nel tirocinio artigianale, scrisse fra i sonetti più belli del nostro Rinascimento. Quando tutto questo, nel XVIII secolo finì col tramonto delle istituzione corporative artigiane, tramontò anche un modello educativo che nei secoli aveva formato apprendisti in numero molto maggiore degli scolari.
Riferimenti Bibliografici
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- Pancera C., Educare al lavoro, in AA.VV., Storia dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1987.
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