Da quando Robertson Smith, studioso della religione dei semiti, ha attirato l’attenzione sull’importanza del pasto come rito di comunione con il dio, non si è mancato di sottolineare sempre più il valore di un pasto rituale come comunione tra i commensali e comunione con il dio che i commensali consideravano l’ospite privilegiato. Occorre qui distinguere adeguatamente tra il mangiare davanti al dio e insieme al dio che implica una comunione non mistica e invece un mangiare dio stesso dove il momento di comunione viene esaltato a livello mistico in un contesto diverso e più misterico. Per gli ebrei mi sembra che sia importante la prima forma di comunione, ma sia sconosciuta la seconda, fatta di immedesimazione e di carattere mistico. Kerényi scrive che “durante il pasto in Grecia venivano sempre invocati gli dei o un dio e venivano in certo qual modo invitati: essi ricevevano la loro porzione come minimo attraverso il versamento simbolico di un’offerta di vino”. In realtà non sappiamo quale rapporto ci sia tra l’invocazione e l’invito. Se all’inizio si trattasse di un vero invito a partecipare rivolto al dio o se si trattasse di una invocazione di semplice presenza rivolta al dio. Sta di fatto che si mangiava davanti al dio e c’era di solito il posto vuoto riservato al dio. La divinità viene immaginata tra i partecipanti al pasto. Essa è invocata nell’epiclesi, forma che si è mantenuta nella stessa liturgia cristiana cambiando naturalmente di significato, e il dio mangia insieme ai commensali. Il sacrificio è visto come un pasto in comune tra dio e gli uomini. È il “mangiare davanti a Dio”.
Naturalmente questo cibo assunto insieme con il dio ha una funzione fondamentale che non sta forse tanto nella “comunione con la divinità”, che si esprime meglio nel “mangiare dio”, ma sta in un grande momento di comunione tra i partecipanti alla mensa in cui dio è presente. Sembra che qui non si possano evitare alcune considerazioni di Durkheim circa l’importanza che ha la religione totemica come fondamento e forza per il clan totemico. Il mangiare in compagnia del dio significa unione intima, indissolubile tra tutti i commensali, significa un atto di comunione non più reversibile tra tutti coloro che sono seduti allo stesso tavolo e mangiano il pasto sacro in unione con il dio. E’ noto che soprattutto in Grecia (e presso gli Ebrei) esistevano queste forme di comunione tra gruppi di fedeli che si sedevano alla stessa mensa alla presenza del dio. La consumazione dell’agnello pasquale, ad esempio, rappresentava presso gli ebrei una commensalità con il dio, con l’ospite divino, mentre non conteneva alcuna traccia di partecipazione mistica alla divinità.
Ma anche in India si conosce ab immemorabili l’offerta che si faceva a Dio del cibo, quasi fosse presente e partecipasse alla mensa. La cosiddetta prasada, oggi ripresa dagli Hare Krishna, in realtà è un rito antichissimo di offerta del cibo al dio Krishna, prima che il cibo venisse assunto. Si tratta di una comunicazione per mezzo dell’offerta del cibo al dio; si tratta di una solidarietà sancita tra tutti i fedeli partecipanti.
Si potrebbe aggiungere a questa tesi della comunione con il dio dei fedeli un altro pezzo di verità religiosa legata al cibo e in questo caso alla bevanda del Soma. Bere il soma – il latte del cielo – è partecipare alla vita degli dei, è diventare immortali. C’è una comunità che si costruisce a partire da una bevanda che adombra una vera prolessi e anticipazione del cielo e della vita immortale con gli dei attraverso il bere il soma. Anche l’assunzione del soma non è un mangiare misticamente dio, ma è un vivere un momento di immortalità. Come ha scritto un indologo, si potrebbe fare una teologia del soma, così come oggi si potrebbe e si dovrebbe fare una teologia del pasto sacro e non soltanto del banchetto eucaristico. E’ però difficile per noi capire il valore religioso di una bibita come il soma degli antichi indù, così come oggi ci è difficile capire il banchetto degli indiani d’America che assumono religiosamente la pianta allucinogena del peyote, quasi fosse un sacramento. Per noi tutto quello che è cibo e bevanda è fatto soltanto di caratteristiche biologiche e chimiche, si tratta di allucinogeni o di altre sostanze chimiche che alterano lo stato di coscienza. Soltanto del vino non facciamo un’analisi chimica se non in caso di adulterazione, per il resto ci limitiamo a dire che è una sostanza inebriante. I popoli antichi vi vedevano una manifestazione del divino, una forza soprannaturale, consideravano il soma, l’haoma come sacramenti di salvezza e di immortalità così come oggi gli indiani d’America trattano con riverenza il peyote facendone un sacramento che unisce a dio.
La nostra secolarizzazione non sa più scoprire la dimensione mistica, comunitaria, del cibo; non sa fare una teologia del mangiare e del bere. Eppure è la vita nelle sue funzioni originarie che si estrinseca e dunque è una dissacrazione della vita stessa che abbiamo introdotto nel nostro modo di considerare i pasti.