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È necessario sottrarsi all’alternativa paradigmatica per cui la globalizzazione o è omologazione totale o diventa scontro di civiltà. Sono convinto invece che uniformità e differenziazione siano due lati di uno stesso processo: due linee di tendenza che si integrano e contrastano allo stesso tempo. Osservando le cose da questo angolo visuale, le opposte tesi di Francis Fukuyama (omologazione universale sotto la cifra dell’individualismo competitivo) o, con un segno valutativo diametralmente rovesciato, di Serge Latouche (che riprende la diagnosi-prognosi di Jacques Ellul circa l’inarrestabile espansione planetaria del dominio della tecnica) e di Samuel Huntington (il mondo post-guerra fredda come teatro di un conflitto interculturale planetario) non si presentano tanto come una drastica alternativa, quanto piuttosto come due mezze verità. La globalizzazione è per un verso uniformazione tecno-economica e finanziario-mercantile, con i conseguenti fenomeni di deterritorializzazione e interdipendenza crescente tra le diverse aree del pianeta, per l’altro un trend accelerato di differenziazione e riterritorializzazione delle identità: di rilocalizzazione dei processi di identificazione simbolica. Tra i due aspetti, che il lessico sociologico tende a compendiare nell’ossimoro del glocal, intercorre a mio avviso una relazione interfacciale. Ma allo stesso tempo si può creare un cortocircuito pericoloso e dagli effetti paralizzanti.
In che cosa consiste, specificamente, il fenomeno del cortocircuito? Il cortocircuito si produce quando salta l’anello intermedio dell’ordine internazionale moderno sorto dalla secolare carneficina delle guerre civili di religione tra cattolici e protestanti e sancito a metà del XVII secolo con la pace di Westfalia, l’anello rappresentato dallo Stato-nazione e dalla struttura che finora lo sorreggeva: l’isomorfismo tra popolo, territorio e sovranità. E qui occorre chiarire una volta per tutte la questione relativa al long-seller sulla «crisi dello Stato» che attraversa da cima a fondo tutte le grandi dispute filosofiche e giuridico-politiche del Novecento. Il nodo della controversia intorno a temi quali l’obsolescenza dello Stato-nazione, l’erosione della sovranità e via dicendo, non può essere sciolto in sede puramente sociologica. Per il semplice motivo che l’applicazione dei metodi quantitativi della sociologia ci darebbe un risultato diametralmente opposto alla diagnosi della crisi dello Stato: analizzando lo stato di salute dello Stato sotto un profilo numerico e con l’esclusivo ricorso al metodo della misurazione, risulterebbe che oggi quello stato di salute è eccellente, dal momento che dopo il 1989 il mondo ha subito un vero e proprio boom delle nascite di Stati nazionali o subnazionali (oggi fanno parte dell’ONU molti più Stati di quanti ve ne fossero prima della caduta del Muro di Berlino) e le istanze e funzioni dello Stato non si sono affatto ristrette bensì allargate. Il declino dello Stato va letto allora non in termini meramente sociologici e quantitativi, bensì in termini politici e qualitativi: ponendo l’occhio all’efficacia della sovranità dei singoli Stati. La situazione dello Stato nel mondo globale ci restituisce così il paradosso di una «salute mortale», di un declinare crescendo: di un grado di efficacia inversamente proporzionale al tasso di espansione quantitativa. Ma è proprio l’inesorabile venir meno dell’efficacia delle prerogative sovrane territoriali a determinare il «salto» della funzione intermediaria tra globale e locale svolta dallo Stato nel corso della modernità. Il cortocircuito si crea perché i singoli Stati sovrani risultano troppo piccoli per far fronte alle sfide del mercato globale e troppo grandi per controllare la proliferazione delle tematiche, delle rivendicazioni e del conflitti prodotti dai vari localismi.
(da G. Marramao, La passione del presente, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 29-31)