Il dibattito ha posto in evidenza come, tanto dal punto di vista sociologico che da quello psicologico, la possibilità dell’esperienza della felicità nella società contemporanea risenta della contraddizione insita nel rapporto con l’Altro che, da un lato, esiste nei meccanismi che definiscono modelli di felicità eterocostretti e, dall’altro risulta essere il reale fondamento della possibilità della felicità individuale. L’idea della felicità – sottolinea Gabriella Turnaturi – con la quale ciascuno di noi si confronta nella quotidianità è definita secondo criteri sociali ben precisi che ne determinano gli elementi costitutivi, i tempi di fruizione, le modalità di espressione e che, paradossalmente, sono rappresentati come sentimenti incontrollabili e prettamente individuali. Derogare, tuttavia, a queste regole, significa mettere in crisi l’ovvio, il senso comune, e porsi immediatamente al di fuori del contesto sociale con l’etichetta di bizzarro o deviante. Fuggire consapevolmente da ciò – aggiunge Silvia Vegetti Finzi – non significa tuttavia rifugiarsi in un ideale di felicità assolutamente solipsistico. È infatti in una relazione piena con l’altro, e in particolare nell’amore, che la felicità trova la maggiori possibilità di essere esperita. Questo perché qui non si tratta della possibilità di un possesso – di beni, oggetti, situazioni che dovrebbero condurre necessariamente alla felicità – e tantomeno del possesso dell’Altro, ma della condivisione con l’Altro di un progetto. La possibilità della felicità riacquista pertanto quelle che dovrebbero essere le sue caratteristiche fondamentali: il silenzio, la comunione, l’immaginazione di un futuro fondato sulla realtà presente, ecc. Tuttavia, sempre di possibilità si tratta, poiché la felicità, come la grazia, è un dono che sta a ciascuno cogliere e esperire nella sua pienezza.