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Le opere d’arte sono concepite per destare emozioni potenti e complesse. La loro interpretazione pone quindi problemi specifici, perché quadri e sculture non si esprimono attraverso parole. «Parlano» invece attraverso le parole che noi prestiamo loro, e questo comporta responsabilità particolari per chi si confronta con l’elusività del loro significato. «Trovare le parole» per descrivere o interpretare le immagini è un problema che impegna gli storici dell’arte da molto tempo. Non ho dubbi in proposito: «trovare le parole» implica prima riconoscere ed elaborare quelle emozioni che le immagini suscitano in noi – emozioni che non sono di ordine semplicemente estetico, ma coinvolgono l’intero ambito della nostra esistenza. Questo è un buon motivo per affermare che competenze di ordine visuale hanno per noi immediate utilità linguistiche e cognitive, oltreché civili. Ci aiutano a ordinare esperienze articolate e a muoverci in modo meno impacciato tra ambiti sensoriali diversi, permettendoci di «tradurre» e transitare dall’uno all’altro. Intesa in senso pre-tecnico e quotidiano, l’attitudine a interpretare – dunque a interrogarsi e interrogare, revocare in dubbio, distinguere, connettere, articolare – è la conditio sine qua non di una cittadinanza desta e qualificata. Il declino di questa stessa attitudine è invece un pericolo per le sorti delle democrazie. […]
Nel dibattere sul ruolo presente e futuro delle Humanities trascuriamo non di rado di considerare proprio la relazione che corre tra lingua, emozioni e cittadinanza, nonché l’importanza che emozioni negative, come la rabbia, la delusione e il disgusto, hanno nei processi cognitivi. Se elaborate, queste emozioni possono sostenere la nostra propensione a sviluppare esperienze. Se rimosse, la intralciano invece durevolmente. In anni recenti sociologi come Axel Honneth e Richard Sennett o filosofi come Martha Nussbaum si sono soffermati più volte sul ruolo politico delle emozioni negative, spesso in esplicita contrapposizione a Nietzsche. Esistono forme utili e persino legittime di «risentimento»? Come distinguere le une dalle altre? Non è il caso di approfondire l’origine antica del tema, che troviamo formulato per la prima volta, verosimilmente in polemica con l’imperatore Claudio, nel De ira di Seneca. Ma la distinzione tra nobile excandescentia e disdicevole rancor attraversa l’intero Rinascimento – come non richiamare alla mente gli irati di Leonardo – e giunge al Nietzsche della Gaia scienza. A parziale modifica di sue posizioni precedenti, questi celebra qui nell’«odio», con veemenza ditirambica, una potente risorsa storiografica. Edgar Wind, storico dell’arte e allievo di Panofsky nel periodo di Amburgo, distingue ancora tra nobile excandescentia e deplorevole rancor nell’esile nota di un saggio maggiore del 1958, Misteri pagani del Rinascimento. Nelle Considerazioni di un impolitico, apparse nel 1918, Thomas Mann aveva fatto peraltro della contrapposizione fra furor philosophicus e furor politicus una chiave per intendere l’ostilità tedesca al «democratismo liberale» anglofrancese e americano: tema che confluirà di lì a poco nell’agenda della «rivoluzione conservatrice». Si tratta di considerare più da vicino il modo in cui, spesso dopo grande fatica e momenti di aspra confutazione di noi stessi, giungiamo a formulare l’excandescentia (o qualsiasi altro «moto dell’animo») in modo legittimo e attendibile, in accordo con i principi argomentativi che reggono la sfera pubblica.
(da M. Dantini, Arte e sfera pubblica. Il ruolo critico delle discipline umanistiche, Roma, Donzelli, 2016, pp. 3-20)*
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