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La scienza ha probabilmente fornito un modello a cui fare riferimento per costruire in modo «quasi sperimentale» dei sistemi sociali in grado di cambiare dinamicamente, modulando le predisposizioni individuali per far apprezzare l’efficienza produttiva e il benessere resi possibili dall’economia di mercato e dal godimento di una libertà individuale e politica consentita entro i limiti della legge. Il fatto che la scienza riesca a ottenere le spiegazioni dei fenomeni perché va contro il senso comune costituisce un elemento culturale importante sul piano della costruzione di una mentalità in grado di far funzionare in modo coerente, sia sul piano economico sia su quello istituzionale la macchina liberaldemocratica. Lo status sociale acquisito dal ricercatore premia la capacità non del tutto innata di abbandonare una credenza o una teoria se questa viene contraddetta dai fatti, e quindi il ragionamento e la mentalità scientifici richiedono un addestramento a pensare in modo innaturale e a trovare una gratificazione o un valore in questo comportamento. […] La capacità di inibire le intuizioni emotive innate, e quindi di andare oltre le istanze conservatrici e l’avversione al rischio che limitano lo sviluppo dell’intraprendenza individuale e del senso di autonomia, ha consentito di creare nuove condizioni politico-sociali, che hanno fornito ulteriori possibilità di sviluppo civile e di elaborazione di nuovi contenuti culturali. La crescita del benessere, sostenuta dall’innovazione tecnologica, è stata accompagnata da una crescente diffusione dell’istruzione scientifica, che ha probabilmente contribuito al miglioramento delle prestazioni cognitive e all’espansione delle liberaldemocrazie nel mondo. Due fenomeni concomitanti nel corso del Novecento. Allo stesso tempo, però, il raggiungimento di standard qualitativi elevati e la rapidità dei cambiamenti ha innescato anche atteggiamenti e comportamenti che esprimono le nostre predisposizioni conservatrici, ovvero tendono a proteggere la tradizione e a percepire con preoccupazione e ansia i cambiamenti, in quanto potenzialmente forieri di un peggioramento rispetto allo status esistente. In sostanza, si è diffusa un’avversione verso la scienza e la tecnologia come fonte di rischi – il che è paradossale, dato che si tratta delle due uniche attività che consentono di governare in modo efficace i rischi. Allo stesso tempo, si sono sviluppate attività economiche che tentano di creare ricchezza prescindendo dal valore materiale degli scambi e facendo leva sulla predisposizione umana alla dipendenza fisiologica da particolari ricompense esterne, principi farmacologici o anche atti comportamentali compulsivi che provocano scariche di sostanze endogene, come gli investimenti finanziari. Allo stesso tempo, si va diffondendo una tipologia di democrazia che è meramente elettorale e non costituzionale, e che può correttamente essere chiamata «democrazia illiberale». Insomma, il combinato disposto di teorie economiche e dottrine politiche che prescindono da quello che la ricerca empirica ci dice essere la «natura umana» potrebbe mettere a rischio gran parte del lavoro fin qui fatto. Almeno in Occidente. La ricetta che oggi sembra avere il maggior successo, purtroppo, rischia di essere quella giusta per cucinare un disastro. Cioè un crescente controllo sulla scienza mosso da istanze etico-politiche conservatrici, che riescono a prevalere anche a causa di un abbassamento della qualità, ovvero dell’inadeguatezza dell’istruzione scientifica e della cultura scientifica in generale. Se la scienza è stata ed è il catalizzatore della macchina socioeconomica su cui stiamo viaggiando, è a quel livello che si deve agire per registrare il motore. Un motore che necessita sicuramente di una revisione.
(da G. Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi, 2011, pp. 156-159)*
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