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Come si è giunti a discutere di sviluppo diverso, di uno sviluppo altro, alternativo? Diverso da chi? Altro da cosa? Alternativo a chi? E perché solo verso la metà degli anni Settanta? E come mai quando si parla delle necessità di coniugare sviluppo diverso e economia il discorso assume gli stessi toni che si registrano quando si discute sulla coniugabilità di ecologia e economia? «Sviluppo diverso» sarebbe dunque soltanto la trasposizione delle questioni ecologiche alle economie che non si sono sviluppate secondo il modello occidentale? Se fosse così probabilmente dovremmo annoverare in prima fila tra i paladini di uno sviluppo diverso quella Mrs.Thatcher così preoccupata dalle conseguenze sul buco nell’ozono determinate dall’uso dei frigoriferi … dei cinesi. Le cose, per fortuna, non stanno così, anche se a volte, viene da rimpiangere la facilità con la quale tanti principi e tanti loro consiglieri riescono a semplificare, con minori volgarità della lady di ferro, questioni la cui soluzione rappresenta tuttora una vera e propria quadratura del cerchio. Finora si è «risolto» un problema, si è giunti cioè a definire alcune cose.
1) Definire lo sviluppo significa chiarire in che misura lo sviluppo degli uni dipenda in realtà, o debba dipendere, dallo sviluppo degli altri e al tempo stesso in che misura lo sviluppo degli uni possa rendersi autonomo da quello degli altri: l’essere, il dovere essere, il poter essere dello sviluppo sono infatti indissolubilmente legati al nodo dell’interdipendenza tra i paesi a gradi e modelli di sviluppo differenti.
2) Definire lo sviluppo significa chiarire che lo sviluppo di un sistema non costituisce qualcosa di altro dallo sviluppo dei suoi singoli attori, dal soddisfacimento dei loro bisogni biologici e psichici come individui, soggetti, persone o cittadini, che li si voglia chiamare: con la consapevolezza disincantata di chi ha perduto l’innocenza del fanciullo liberale, che vede il soddisfacimento dei bisogni di ciascuno combinarsi virtuosamente, sotto la guida di una mano invisibile, nell’interesse della collettività, e ricadere così positivamente sulla vita di ognuno dei suoi membri.
3) Definire lo sviluppo significa chiarire che lo sviluppo dell’oggi non può pregiudicare quello del domani, come avviene allorquando la crescita di un sistema mina irreversibilmente l’ambiente che gli fornisce le condizioni di esistenza e di riproduzione.
Questi tre chiarimenti in apparenza semplici e per taluno forse ovvi, se risolvono alcuni nodi terminologici contribuiscono a crearne altri: risolvono un problema, ma è una soluzione che crea problemi… Non sono cioè soltanto la premessa a partire dalla quale avanzare proposte di modelli per il futuro. Prima ancora essi costituiscono l’elemento destabilizzante di un percorso teorico e pratico niente affatto breve e lineare. Se un qualcosa veniva dato per scontato, poco più di quarant’anni fa, esso era proprio la riproducibilità e l’esportabilità illimitata di un modello di sviluppo endogeno, refrattario, se non sul piano imitativo, all’interazione con altri sistemi sociali; la cui riuscita era verificata da un indicatore (il prodotto interno lordo) che non si preoccupava della distribuzione, tra gli individui, delle gratificazioni non solo biologiche e psichiche, ma neppure semplicemente monetarie; la cui ricaduta sulle risorse naturali non rinnovabili non veniva minimamente presa in considerazione. Cosa ha portato, in un lasso di tempo più breve di mezzo secolo, a criticare «dall’interno» prima e a ridefinire poi, in maniera tanto drastica, quanto problematica, il concetto dottrinario tradizionale di sviluppo?
(da Alberto Tarozzi, Visioni di uno sviluppo diverso, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1990, pp. 15-16)*
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