La vicenda della costruzione dello spazio politico della modernità realizzatasi attraverso il sistema degli Stati nazionali occidentali può essere raccontata come il continuo costituirsi di un campo di tensione fra identità e differenza, fra universalismo e particolarismo, fra processi di inclusione e paralleli processi di esclusione, come la continua costituzione cioè di confini fra chi è dentro lo spazio politico di sicurezza dello Stato e chi ne è tenuto fuori per garantire la sicurezza degli altri. Diventa allora evidente che il multiculturalismo di cui dibatte oggi sia la comunità scientifica sia l’opinione pubblica non è un fenomeno nuovo, figlio anch’esso della globalizzazione, ma è solo un nome nuovo dato a un problema vecchio: il riconoscimento dell’altro, che parallelamente alla costruzione concettuale e politica della forma dell’identità nazionale ha lavorato fino ad emergere oggi con più evidenza nelle teorie e nelle pratiche che affermano l’esistenza di appartenenze plurime. Se il problema dell’identità come individuazione del sé è problema che sta alla base del pensiero politico moderno, ciò cui assistiamo nell’ambito del dibattito multiculturale è un’esasperazione di tale problema. Più che nei secoli passati, oggi la questione dell’identità culturale (con la difficoltà poi di riuscire a spiegare che cosa si intende per identità culturale) viene affrontata da gran parte del dibattito multiculturale come dato precostituito, dato che oltretutto la presenza dell’altro metterebbe pericolosamente a rischio. L’incapacità di affrontare adeguatamente la questione della cultura non più come dato, ma come processo, produce lo sviluppo di ciò che si chiama società multiculturale «a mosaico», costituita cioè dalla giustapposizione delle diverse comunità quasi fossero tessere di un mosaico e che tuttavia si comportano fra di loro alla stregua di monadi. Un mosaico «che non solo riproduce i modelli di esclusione del passato, ma soprattutto non garantisce i diritti di libertà e eguaglianza delle persone».
Oggi, all’inizio del XXI secolo, di fronte all’emergere di quelle che vengono percepite come nuove forme di soggettività e che la realtà dimostra non essere incluse nel processo sopra descritto, nuovamente torna centrale nella riflessione politica la questione del riconoscimento. Si ha la percezione di domande per nuovi diritti e nuove libertà avanzate da comunità, gruppi, individui, che però rifiutano la logica della reductio ad unum della rappresentanza moderna, dell’identificazione, della staticità, della normazione-normalizzazione che ad essa inerisce. Nelle cosiddette società multiculturali entrano in tensione sia l’identità del «noi» sia l’identità degli «altri». La difficoltà sempre maggiore di riuscire a definire i confini delle identità in gioco nel processo di trasformazione sociale e politica a cui stiamo assistendo, produce il più delle volte una reazione di chiusura di fronte alla paura per quel nuovo che ancora non sappiamo definire o che, tutt’al più, definiamo attraverso parole quali multiculturalismo o multiculturale, che si rivelano imprecise, sfumate, poco pregnanti. E la confusione, che solo raramente viene letta con il segno positivo della ricchezza e della complessità, ci spinge a decidere, cioè a tagliare, a dividere in due la situazione; a decidere (noi) che cosa è giusto e che cosa è sbagliato (degli altri). Si rivela, per l’ennesima volta, uno dei tratti salienti del pensiero europeo-occidentale, la sua pretesa cioè a dimenticarsi della propria particolarità e a farsi universale, a «colonizzare» il mondo: «la propensione al giudizio – il ‘diritto’ neocoloniale di giudicare gli altri sommariamente – è un tratto caratteristico della posizione etnocentrica».
(da M.L. Lanzillo, Il multiculturalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 19-21)*
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