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Queste circostanze – rese ancora più evidenti dal rapido processo che ha portato il cinema a diventare una forma di intrattenimento collettivo di straordinaria popolarità, ma anche, proprio per questo, a essere rapidamente assimilato alle logiche produttive del capitalismo – obbligano il regista a scendere a patti, in primo luogo con due categorie di persone: coloro che investono il denaro, i produttori, e coloro che appaiono, più di ogni altra professionalità coinvolta nella realizzazione di un film, capaci di rendere redditizio l’investimento: gli attori. Sebbene tutti i manuali di regia cinematografica dedichino gran parte del loro spazio alle mansioni che il regista deve svolgere sul set, spesso i suoi compiti e le sue fatiche hanno inizio ben prima e riguardano la componente economica del film, nella fattispecie il rapporto fra investimenti e profitti che ne può – in misura maggiore o minore a seconda delle epoche e del sistema culturale entro il quale il cinema si colloca – motivare o condizionare la realizzazione.
Questo lo obbliga a trovare con i produttori e con gli attori una forma di mediazione tutt’altro che semplice, che, se mancata, può generare conseguenze disastrose sul film quale lo aveva concepito e pensato. Già negli anni Dieci e Venti il regista è costretto a coniugare le proprie ambizioni artistiche alle esigenze e ai desideri, che non di rado sono comuni, dei produttori e degli interpreti di primo piano. Nello stesso tempo, il regista è alle prese con un’altra forma di mediazione, ancora più delicata e difficile: quella tra le immagini che gli sono suggerite dalla propria interiorità, che possono avere un grado più o meno forte di immaterialità, inconsistenza e indeterminatezza, e la contingenza del mondo reale, alla quale egli è legato dalla stessa natura fotografica del cinema.
Il problema non è nuovo, e riguarda in senso lato, già molto tempo prima dell’avvento del cinematografo, le dinamiche della creazione artistica. Se, come afferma Calvino, l’immaginazione costituisce un patrimonio comune, il ruolo del regista si definisce proprio attraverso il compito di dare al suo “cinema mentale” un coefficiente di intelligibilità tale da renderlo comprensibile e, possibilmente, apprezzabile da una collettività di spettatori più o meno vasta. Un passaggio di estrema delicatezza, che, sotto questo punto di vista, può essere ancora una volta ricondotto all’ambito più generale della creatività artistica, intesa come luogo di confluenza, compenetrazione e/o collisione tra la ricezione del mondo e una sua metabolizzazione espressiva. […] Sotto questo profilo, all’inizio del Novecento l’avvento del cinema rilancia, riconfigurandola in termini nuovamente problematici e conflittuali, una questione alla quale l’immaginazione romantica sembrava, nel secolo precedente, avere dato una risposta. La componente fotografica del cinema rimette in gioco lo spazio dell’universo e, al contempo, la possibilità, per l’immaginazione, di essere un organo di conoscenza, sia pure di un tipo particolare, comunque scandito secondo i tempi, i modi e le forme della propria interiorità. La figura del regista si colloca allora esattamente al punto di convergenza fra queste due polarità: conoscere/registrare/vedere da una parte, immaginare/fantasticare/guardare dall’altra.(da L. Gandini, Cinema e regia, Roma, Carocci, 2006, pp. 11-16)
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.