Audio integrale
Video integrale
Quando parliamo della centralità della dimensione pratica – nella vita sociale in generale, nonché nelle organizzazioni in particolare – non ci riferiamo a una dimensione meramente materiale. L’attività pratica è impregnata di (pre)giudizi, di idee, di simboli, di significati, di ipotesi sul futuro, di emozioni, e così via. In una parola, le nostre pratiche sono espressione delle nostre culture, e per quanto ci riguarda nel nostro caso in particolare, di culture organizzative: ragion pratica e dimensione simbolica sono, in questo senso, costitutivamente intrecciate. Se vogliamo affrontare il problema della incompleta istituzionalizzazione delle politiche di conciliazione dobbiamo partire dall’assunto che i contesti di lavoro sono delle “comunità di pratica”. […]
Il problema che concerne la conciliazione tra lavoro remunerato e lavoro famigliare consiste nel fatto che le “comunità di pratica” tendono prevalentemente a riprodurre al loro interno i principi organizzativi dell’ordine sociale fondato sul “dominio maschile”, sulla naturalizzazione della divisione di genere del lavoro sociale e sulla concreta resistenza all’effettiva realizzazione della “cittadinanza di genere” nelle organizzazioni stesse. In altre parole, al di là dell’introduzione formale di misure tese (per quanto limitatamente) all’implementazione della cittadinanza di genere nei contesti organizzativi, le interazioni sociali e le attività pratiche quotidiane al loro interno (i rapporti tra lavoratori, quelli tra livelli gerarchici diversi, i processi decisionali, l’affidamento di compiti, la suddivisione delle attività interne, la negoziazione sui tempi e sui ritmi, ecc.) tendono a costruire le regole di competenza riaffermando la centralità dell’ordine simbolico di genere secondo l’archetipo della separatezza tra ciò che è maschile e ciò che è femminile e la subordinazione “simbolica” del secondo rispetto al primo. […]
In questo senso, pertanto, il versante della trasformazione delle culture che alimentano le “comunità di pratica”, cioè i concreti contesti di lavoro di uomini e donne, riveste un ruolo altrettanto importante di quello dell’offerta di servizi. Si tratta, come è evidente, di un terreno assai complesso, in cui interventi diretti, ingenui e semplicistici, rischiano di essere inutili, se non controproducenti. E, tuttavia, occorre essere consapevoli che prescindere da questo fattore significa arrendersi all’incompiutezza del necessario processo di istituzionalizzazione della conciliazione tra lavoro e famiglia e della cittadinanza di genere più complessivamente. […]
Se si mantiene l’attenzione sull’intero sistema di genere, non soltanto sulle sue parti, ci sono scelte di intervento sagge da effettuare in ciascuna delle sue parti che portano ad un aumento del benessere delle persone e della collettività. Il fine, a nostro avviso, non dovrebbe coincidere – anche se attualmente il problema è spesso questo – con il rendere il lavoro famigliare, e quindi la condizione delle donne, più funzionale al mercato del lavoro, bensì deve consistere in un effettivo allargamento delle libertà di scelta tanto delle donne quanto degli uomini in merito alle possibili combinazioni di lavoro remunerato e famigliare di volta in volta più rispondenti alle diverse fasi di vita individuale e famigliare.
(da T. Addabbo, a cura di, Genitorialità, lavoro e qualità della vita: una conciliazione possibile?, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 135-137)
Riferimenti Bibliografici
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.