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Va innanzitutto considerato il fatto che dire le donne nella Chiesa – si tratti di considerarle come soggetto del vivere ecclesiale, si tratti del considerarle come soggetto della riflessione critica sulla fede – non può darsi nella rasserenante e pacificata unilateralità del costatarne la visibilità ovvero l’invisibilità. Il soggetto donna chiama di necessità in causa tutte e due le categorie. Ciò che è visibile richiama sempre ciò che viceversa visibile non è. Le donne, insomma, stanno nell’ambiguità di una visibilità invisibile e di un’invisibilità visibile, oltre che nell’ambiguità contigua del visibile/invisibile. Le donne si vedono e non si vedono. Si vedono come soggetto della riflessione di fede ma insieme – forse anche più spesso – non si vedono. Viste, la loro visibilità rifluisce quasi obbligatoriamente nell’invisibilità, e d’altra parte la loro invisibilità è smaccatamente smentita. Cosa concretamente significa tutto ciò?
Innanzitutto il fatto che a deciderne visibilità e invisibilità non sono le donne. La loro percepibilità quali soggetti del vivere la fede e del riflettere sulla fede – i due poli sono inseparabili – è stata sin qui sempre filtrata al maschile. Tant’è che solo di recente il convincimento largo, diffuso, condiviso della loro ovvia invisibilità viene messo in discussione, si tratti del ritrovare le donne nell’Antico e nel Nuovo Testamento, nell’età dei padri, nel medioevo e così via. Certamente a incrinare questo che è un pregiudizio, più che uno scientifico convincimento, hanno contribuito gli uomini stessi. Ma l’apologetica da loro approntata sulla visibilità delle donne è stata talmente funzionale a un certo modello di donna da risultare costruttiva più dell’invisibilità che della visibilità delle stesse. Le donne poi hanno tenacemente lavorato, ricercato, scavato, ma anche in ciò che concerne questa loro fatica non è mancata una certa apologetica, altrettanto fondamentalista o, il che è lo stesso, radicale, vuoi si trattasse del mostrare la valenza singolare della visibilità delle donne, vuoi si trattasse di contestare gli assunti del maschile dire visibili o invisibili le donne.
In ultima analisi, che vuol dire visibile? Che vuol dire invisibile? Sono categorie congrue? E soprattutto, sono le uniche categorie attorno alle quali registrare e documentare la soggettualità delle donne nella vita della Chiesa e nella storia della teologia? Diciamo visibile una cosa che manifestamente cade sotto ai nostri occhi. La visibilità può essere fisica: l’impatto è allora immediato, malgrado la variabile della nostra fallacia di soggetto conoscente. Vedere non vuol dire perciò stesso registrare la gamma complessa dell’oggetto che mi sta dinanzi. Esso può sfuggirmi, può venire frainteso, visto che il mio «vederlo» è sempre accadimento culturato, pesantemente ipotecato dalla mia soggettiva interferenza con ciò che è largamente riconducibile a cultura. Io posso «vedere» le donne; posso registrare la loro visibilità. Ma il mio spettro del vederle e l’ipoteca globale che sorregge il mio vedere – ipoteca concettuale, oltre che fisicamente percettiva – può distorcere l’oggetto veduto, può dirlo esattamente al contrario. Quanto al non vedere, le regole rimangono le stesse. Il mio condizionamento, la mia sensibilità possono esser tali da farmi addirittura negare l’oggetto che pure mi sta dinanzi. Visibilità e invisibilità, dunque, non sono categorie sufficienti. Non basta aver veduto le donne nella storia della Chiesa per dedurne una visibilità teologica. Né basta non averle vedute per desumerne il contrario. Eppure, pur con tutti i limiti che suggeriscono, queste categorie hanno funzionato. Hanno posto in evidenza un problema. A esso però hanno anche precostituito un gigantesco alibi. È stato ciò che è stato. Inutile pensare di recuperare il perduto. Le donne guardino al futuro. Tesi del tutto inaccettabile. È con la storia del pensiero, con la storia della teologia, con la storia della Chiesa, con la storia tout court che bisogna confrontarsi. Simili a un paleontologo che pazientemente va in cerca dei suoi reperti e li classifica e di nuovo li riclassifica, sempre posto dinanzi a un nuovo dato che muta radicalmente la sua ipotesi, dobbiamo di nuovo e poi di nuovo scavare, constatare e vagliare la visibilità/invisibilità delle donne nella storia della Chiesa e della teologia. Ciò che rende diversa oggi la nostra condizione è l’avere affinato gli strumenti, l’avere altre categorie sinergiche, altre chiavi interpretative. Ed è innanzitutto questo che occorre discernere ed esaminare.
(da C. Militello, Visibilità e invisibilità delle donne dall’età dei padri alla nascita del femminismo, in Id., a cura di, Donna e teologia. Bilancio di un secolo, Bologna, EDB, 2004, pp. 24-26)*
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