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Il 10 giugno 1310 sulla piazza di Grève, a Parigi, di fronte alle autorità civili e religiose e a un grande pubblico commosso, veniva bruciata come eretica, insieme al suo libro, la beghina Margherita Porete. Proprio il libro, lo Specchio delle anime semplici, era il motivo della condanna: a Margherita null’altro si imputava infatti se non di aver scritto e diffuso, nonostante espressi divieti in proposito, un testo giudicato pericoloso, anzi ‘pestifero’ – anche se alcuni valenti teologi si erano espressi in senso contrario. Giunto fortunosamente fino a noi e attribuito correttamente a Margherita dall’erudizione di Romana Guarnieri, oggi lo Specchio delle anime semplici è pubblicato tra i classici del pensiero cristiano ed è concordemente ritenuto uno dei vertici della spiritualità medievale. In esso compare chiaramente il tema dell’amore che, portato al suo limite estremo di grandezza, termina in quanto volontà e lascia emergere lo spirito. Il libro inizia infatti come e con un canto d’amore, di quell’amore nobile che ha nell’amor cortese la manifestazione più bella.
L’amore del prossimo e l’amore di Dio vengono visti nella loro profonda affinità, in quanto siano vero amore, cioè carità, che si muove senza timore, senza desiderio di ricompensa, senza affezione neppure alle gioie spirituali – un tratto, quest’ultimo, che pone Margherita ben al di sopra dello psicologismo di tanta mistica, femminile e non, nella quale v’è invece attenzione alle ‘consolazioni’. Indifferente a tutto perché distaccata da tutto, l’anima nobile prende congedo dalla morale come dipendenza e vive in assoluta pace. Essa non ha mai tristezza perché non appartiene a se stessa, non desidera niente fuori di sé – come nessuna cosa creata entra nell’anima nobile – e la divina nobiltà non è data a chi permane nel desiderio e nel volere. In serrata sequenza si mostra poi la contraddizione cui va incontro l’amore in quanto tale. L’amore è infatti volontà, l’amore infinito vuole tutto, ma questo voler tutto è voler nulla, e dunque l’anima nobile, cioè l’anima che ama infinitamente, perde ogni volontà, si disappropria di se stessa e del proprio volere, tanto da poter paradossalmente affermare che chi vuole non ama, e che il maggior tormento che la creatura possa soffrire è dimorare nell’amore – ove, chiaramente, per amore si intende volontà-desiderio.
La fine della volontà, che è sempre e comunque egoistica, significa dunque la fine dell’amore in quanto desiderio ma, se questa fine avviene per la traboccante ricchezza dell’amore stesso, l’anima cessa di amare perché diventa essa stessa Amore – ovvero si stabilisce una identità tra Amore, Anima e Dio. Sola e libera, nella libertà del puro amore, l’anima nobile è sempre «pensosa senza tristezza, gioiosa senza dissolutezza» – anzi, non si deve neppure dire che prova gioia, ma che è la stessa gioia, trovando ugualmente Dio in tutte le cose. Il canto d’amore di Margherita è un continuo invito a lasciare il ‘meno’ e andare verso il ‘più’, cioè verso l’infinito, l’assoluto, ovvero quel Dio che viene da lei suggestivamente chiamato il ‘Lontano-vicino’. Al termine di questo cammino, che è poi quello del Convito platonico, l’anima scopre «sé come nulla, e il nulla come sé». «Io non sono, e ugualmente non mi manca nulla», scrive ancora alla lettera Margherita: l’anima ha affrontato molte ‘morti’, e soltanto così ha guadagnato la vita divina, quell’«essere senza essere» che è lo spirito. Il tema della morte mistica, o morte dell’anima, è infatti quello che più di ogni altro contraddistingue l’esperienza dello spirito, differenziandola dallo psichismo inferiore. La testimonianza letteraria e umana di Margherita in proposito è una delle più toccanti di tutta la storia della mistica.
(da M. Vannini, Introduzione alla mistica, Brescia, Morcelliana, 2000, pp. 65-66)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
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