La maggior parte dei commentatori della Commedia dantesca, dai più antichi fino ai più recenti, ha inteso la «selva oscura» del primo canto quale simbolo della corruzione morale e del peccato, incidenti, con rimorso e quasi disperazione di salvezza, sulla coscienza dell’autore: la «retta via» è stata conseguentemente interpretata come il cammino “etico” che conduce alla santità e alla salvezza eterna, proprio in quanto immagine intuitivamente contrapposta al concetto di «torto» o «storto», ossia all’«errore» che fa “de-viare” il soggetto dal solco dell’attuazione del bene. Non rari però, sia nei tempi antichi sia in epoca recente, sono stati anche gli interpreti che hanno difeso l’opportunità di intendere piuttosto l’immagine della selva come significativa del disorientamento conoscitivo del poeta (e solo conseguentemente, e in parallelo, del disordine morale). In questa direzione mi sembra allora assumere un valore peculiare e illuminante la possibilità di ricondurre il significato della «selva oscura» dantesca alla raffigurazione, come in Bruno di Segni, dello scacco della conoscenza umana del vero, pur in presenza della concessione divina della rivelazione. Non il contenuto o l’origine, e quindi l’autenticità dell’Autore vengono messi in discussione da tale idea, ma l’elevata difficoltà di lettura del tessuto intricato di dottrine, episodi, normative, consuetudine della Scrittura (e quindi, in generale, delle complessità della dottrina di fede e della sua comunicazione da Dio agli uomini), nel quale è difficile inoltrarsi con sicurezza. Se la via alla salvezza dal peccato non può che passare attraverso una “corretta” conoscenza della verità teologica, il giusto o “retto” orientamento verso il bene e la virtù è possibile per l’anima corrotta dal peccato, secondo il primo fondamento teorico del pensiero cristiano, soltanto a partire dall’adesione ai contenuti della rivelazione divina. Perciò, in quanto luogo di possibile disorientamento della mente umana, anche di chi crede, per la difficile intelligibilità del suo linguaggio e dei suoi contenuti, la pagina scritturale e profetica può essere assimilata a una selva vasta e tenebrosa, senza che questo comporti necessariamente l’estensione al Testo sacro di una connotazione di rischio e pericolosità, o comunque della possibilità di un esito improduttivo o deviante della sua lettura. L’accesso alla verità della rivelazione per un lettore non adeguatamente abile, informato ed esercitato sui criteri dell’esegesi, non è mai, nel Medioevo, né facile, né immediato.
(da G. d’Onofrio, Per questa selva oscura. La teologia poetica di Dante, Roma, Città Nuova, 2020, pp. 23-24)*
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