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La dimensione post-mortem è in ambito mesopotamico questione complessa poiché si articola in vari ambiti e fasi cronologiche con stratificazioni e contaminazioni che si verificano nel corso della lunga storia di trasmissione al suo interno e di contatti con altri ambiti culturali. Il mondo dei morti, che è popolato da molteplici figure (divine, “demoniache”, “eroiche”), è un mondo avente varie relazioni con quello dei vivi, che fondamentalmente ne teme le incursioni. Data la sua rilevanza, la tematica è stata oggetto di numerosi studi che concernono sia le figure divine e la topografia del mondo infero, sia la condizione dei trapassati, sia le figure dei “demoni” e le connessioni tra queste varie categorie.
L’età neo-assira (secc. X-VII a.C.), che rappresenta un importante momento di codificazione e raccolta della tradizione precedente, allo stesso tempo ha lasciato anche testimonianza di nuove composizioni che reinterpretano a volte profondamente il passato e può essere considerata come punto prospettico di particolare interesse per cogliere alcuni caratteri salienti della visione mesopotamica dell’“Aldilà”. Tra i testi letterari di età neo-assira relativi all’“oltretomba” si segnalano la Discesa di Ishtar agli Inferi, Nergal ed Ereskigal, che riprendono miti preesistenti, la Visione ultraterrena del principe, composizione originale, Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi, che traduce parte di un testo sumerico e descrive la condizione umana nell’“Aldilà”. (…)
Nella concezione mesopotamica esiste un mondo dei morti caratterizzato come “paese da cui non c’è ritorno”, a garanzia di un cosmo che mantiene il suo ordine, in cui i morti non possono “sopraffare i vivi”: i contatti sono per così dire disciplinati dalle stesse incursioni divine, che servono a rappresentare non solo la buia esistenza degli Inferi, ma anche l’importanza del rito, che tale condizione serve in qualche modo ad alleviare. Il rito mantiene e talvolta corregge i rapporti nella comunicazione tra i due mondi, secondo il modello che i miti presentano, e diviene particolarmente prezioso nel caso in cui “spettri” e “demoni” affliggano i vivi e sia necessario servirsi delle vie che gli dèi hanno percorso e degli espedienti che hanno escogitato per ristabilire l’equilibrio, anche riassegnando a coloro che ne sono stati privati dalle circostanze della vita, o della loro stessa morte, le condizioni per essere raggiunti dal contatto rituale.
(da S. Ponchia, Le divinità infere nella letteratura neo-assira tra canonizzazione e ricerca, in I. Baglioni, a cura di, Sulle rive dell’Acheronte. Costruzione e percezione della sfera del post-mortem nel Mediterraneo antico, Roma, Quasar, 2014, pp. 103 e 112)