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Il motivo, platonizzante, dell’uccello-anima che, caduto dal nido posto sull’albero primevo, s’impiglia nella rete del corpo (una delle primissime immagini del poema) o del mondo è assai ricorrente nella poesia persiana insieme a quello strettamente connesso della Fenice-Simurgh, uccello simbolo di Dio che nidifica sull’albero della vita, già presente nella letteratura antica e medio-persiana. Le fonti coraniche del motivo sono rintracciabili nella sura XXVII in cui Salomone, alla testa di un’armata di uomini, jinn e uccelli, recita: «O gente, ci fu insegnato il linguaggio degli uccelli…», parole che secondo la critica persiana ispirarono a Farid ad-din ’Attar il titolo dell’opera Mantiq at-Tayr. Tuttavia «mantiq» è termine dall’ampio spettro semantico (linguaggio, discorso, verbo, logica, dialettica) per cui ci pare possibile, e forse più suggestivo, interpretare con «Il verbo» o «La logica degli uccelli» che, con elegante ironia, individuerebbe proprio nei filosofi, e nei razionalisti in genere, i principali destinatari del messaggio di ’Attar. Alla logica della ragione, in definitiva si opporrebbe una «logica» del cuore, la sola che può permettere agli uccelli di sondare i misteri del divino. La filosofia infatti diviene oggetto di pesanti invettive nell’ultima sezione del poema, laddove l’autore ci parla di se stesso e delle finalità della propria opera. E concludendo una lunga apostrofe contro i filosofi, ’Attar esorta i viandanti a «scegliere la scienza di Medina» e a «spargere sulla Grecia la polvere dell’oblio». (…)
Il poema inizia con una canonica invocazione a Dio, al profeta Maometto e ai quattro califfi. Emergono sin dalle prime pagine i tratti tipici di una «teologia negativa» giacché «tutto quanto di Lui tu dica, Egli non è» e «di Lui non esiste altro segno che il non-segno». Anzi, ogni teologia pare condannata a risolversi in sterile antropologia se «per quanto di Lui si dica, è di se stessi che si parla». A colmare questo abisso di incomunicabilità, a mediare tra Dio e l’uomo, non è tanto la legge del profeta quanto l’opera dello shaykh, maestro e guida spirituale degli eletti nel cammino dalla legge rivelata alla verità nascosta, protagonista solitario e spesso incompreso di una «maieutica» del cuore. L’upupa, che nel Corano è messaggera di Salomone presso la regina di Saba (XXVII, 28), emerge come il Virgilio del poema attariano, e, in questa veste, si propone alla moltitudine degli uccelli, promettendo di guidarli nel lungo viaggio alla ricerca di Simurgh, il mitico re che vive al di là dei confini del mondo. Ma gli uccelli esitano, ognuno di loro accampa pretesti, ha un dubbio da esporre all’upupa che, ora pazientemente ora duramente, risponde alle domande più o meno sincere.
Questi dialoghi sono sempre seguiti da racconti di carattere aneddotico che ne illustrano il tema principale. È questa la sezione più consistente del Mantiq at-Tayr e, data la varietà e la natura degli argomenti – la morte, l’ambizione, l’amore, l’appagamento ecc. – ne costituisce la parte più didascalica.
L’ultima sezione del poema, che in alcuni manoscritti compare con il titolo di Maqamat at-Tuyur (Le stazioni degli uccelli), inizia con la descrizione delle sette valli lungo cui si snoda la mistica via: ricerca, amore, conoscenza, distacco, unificazione, stupore e annientamento, una simbolica rappresentazione degli stadi attraverso i quali l’anima, con costante progressione, attinge la perfezione mistica (idea tipicamente gnostica cui corrispondono i diversi gradi o livelli di iniziazione spirituale).
Finalmente gli uccelli partono, ma il loro viaggio è condensato in pochi versi in cui è detto che di centomila solo trenta giungono, stremati, alla sospirata corte. In effetti la vicenda degli uccelli si configura come una storia-cornice che si conclude con l’incontro dei superstiti con Simurgh. Si-murgh, il «Trenta-uccelli», è in realtà lo specchio dei trenta uccelli che giungono alla sua corte e così l’esplorazione attariana del «mare dell’anima» si compie nella scoperta della sua totale identità con il Mare divino.
(da C. Saccone, Postfazione, in Farid ad-din Attar, Il verbo degli uccelli, a cura di C. Saccone, Milano, SE, 1986, pp. 233-234)*
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