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La determinazione della patria e della datazione di Zoroastro costituiscono un problema tradizionale nell’ambito degli studi mazdaici, intorno al quale polemiche e divisioni significative si sono radicate nel corso degli anni. In pratica, secondo i sostenitori della cronologia alta (Helmut Humbach, Almut Hintze, Jean Kellens, Prods Otto Skjrervo), giacché le Gatha e gli altri testi in antico-avestico sarebbero molto più arcaici della liturgia in avestico recente (circa quattro secoli), l’azione del profeta andrebbe posta verso la fine del II millennio a.C. o intorno agli inizi del I millennio. A tale modello si contrappone quello di coloro che, come Walter Bruno Henning, Ilya Gershevitch, Gherardo Gnoli, accettano come fededegna una tradizione riportata dai testi pahlavi, secondo la quale Zarathustra sarebbe vissuto 300 anni prima di Alessandro o che, altrimenti, la sua rivelazione sarebbe stata ottenuta 258 anni prima dell’arrivo del Macedone e pertanto egli andrebbe collocato tra la fine del secolo VII e gli inizi del VI secolo a.C.
Gnoli, in particolare, ha fatto notare che alla luce di un ampio consenso di fonti classiche, ma anche ebraiche e manichee, tale tradizione troverebbe un circostanziato sostegno e che essa non sarebbe stata affatto circoscritta al mondo iranico. Tale osservazione è di estremo interesse perché mostra ancora una volta l’ampia circolazione di nozioni mazdaiche tra Iran e Occidente, ma non adduce alcuna prova oggettiva in merito alla datazione di Zarathustra. Di fatto, la figura di tale profeta è tutta ancorata alla liturgia che ne fa il prototipo del sacerdote prescelto per udire correttamente il messaggio di Ahura Mazda, ma il quadro operativo in cui viene collocato è estremamente vago, genericamente iranico-orientale e sostanzialmente estraneo ai centri politico-culturali e commerciali del Vicino Oriente e alle sue aree metropolitane. Nessun documento di carattere secolare, estraneo alla liturgia, nessuna fonte esterna, anche ostile, sebbene di una qualche ragionevole antichità, ci permette di ancorare Zarathustra a un luogo e a una data precisa. Ciò ha portato alcuni studiosi come Kellens e Skjrervo a sostenere, sulla scorta di alcune anticipazioni fatte risalire a Marijan Molé, l’assoluta astoricità del profeta Zoroastro, il quale non sarebbe altro che il risultato finale di un mito religioso, una sorta di figura prototipica del sacerdote perfetto, la cui biografia sarebbe stata nel corso dei secoli creata ad arte, arricchita, sviluppata e trasformata in vera e propria leggenda. D’altra parte, se la ricostruzione di una biografia ‘vera’, almeno in termini assoluti, di Zoroastro è senza ombra di dubbio un vano tentativo, a causa dell’oggettiva assenza di qualsiasi fonte storicamente ricevibile dal tribunale della storia, l’eliminazione totale e senza appello di una personalità attiva, che verrebbe così a diluirsi e stemperarsi in una sorta di circolo gathico (i preti stessi ai quali andrebbe a questo punto attribuita la composizione della letteratura antico-avestica), non risolve la questione; anzi la complica ulteriormente, spostando solo il nodo essenziale altrove. Infatti, a parte la constatazione che il ruolo attribuito a Zarathustra nelle Gatha e poi in tutta l’Avesta è tale da non trovare alcun confronto parimenti sostenibile nel mondo vedico e nella sua gigantesca letteratura, per cui il compito specificatamente personale attribuito alla responsabilità di Zoroastro appare come una vera frattura sistemica rispetto alle funzioni normalmente riconosciute al clero indo-iranico, eliminare totalmente dal campo una figura, se pur pallida, tutto sommato ancora storicizzabile, per sostituirla con un ancora più evanescente circolo gathico, può tramutarsi in una specie di gioco nominalistico privo di alcun vantaggio. In realtà, Zarathustra di per sé stesso costituisce un falso problema, perché se una sua biografia è del tutto impossibile, ciò che ne caratterizza il profilo dal punto di vista della storia religiosa è il ruolo di eventuale innovatore all’interno della tradizione speculativa e rituale antico-iranica. In altri termini, se noi immaginiamo che alcune caratteristiche della liturgia avestica siano frutto di un’innovazione e che tali cambiamenti siano stati prodotti da una cerchia sacerdotale che avrebbe elaborato in un’azione di mitopoiesi teologico-rituale anche la figura (mitica) di Zoroastro, ebbene, tale gruppo alla fine non sarebbe altri che Zarathustra stesso, per quanto sotto diversa veste. Ciò che, infatti, più conta, concerne il grado di importanza che si attribuisce all’elemento innovativo nell’impianto mazdaico rispetto alla tradizione indo-iranica. Ad esempio, l’accento posto contro il “torto”, la “violenza” (rituale e non) dei grandi e dei potenti, l’attenzione verso la sofferenza, anche degli animali sacrificali, l’insistenza sulla dimensione mentale del male, e sulla libertà della scelta, indicano le Gatha, se non come un testo rivoluzionario, secondo una vulgata un po’ idealistica della fase iniziale della storiografia zoroastriana, certamente come un testo di estrema profondità speculativa, per quanto inserito in una visione specifica della ritualistica, in cui l’elemento innovativo appare chiaramente presente e, con esso, anche il peso, certamente non esclusivo, come talora si è invece voluto asserire, di una sintesi personale.
(da A. Panaino, Zoroastrismo. Storia, temi, attualità, Brescia, Morcelliana, 2016, pp. 29-31)*
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