Nell’ottobre del 1921, recensendo un libro dello psicologo Johannes von Allesch, suo vecchio compagno d’università, Robert Musil scriveva che i trattati d’arte del suo tempo potevano dividersi in due grandi categorie: o erano troppo eruditi o troppo brillanti. Di rado accadeva che un testo riuscisse a combinare entrambe le qualità, col risultato che queste pubblicazioni erano incapaci di incidere realmente sulla vita artistica, esponendola alla stessa instabilità delle speculazioni di Borsa. A distanza di quasi cent’anni dalle parole di Musil, la speranza che un saggio possa ancora avere una qualche influenza sulle pratiche dell’arte contemporanea è quanto meno ingenua. Ciò non toglie, tuttavia, che si scrivano libri ricchi di conoscenza e al contempo stilisticamente eleganti, come nel caso del volume di Hans Belting Il capolavoro invisibile. Il mito moderno dell’arte, che presenta una storia editoriale piuttosto complessa. Pubblicato originariamente in tedesco nel 1998 con il titolo Das unsichtbare Meisterwerk, è stato tradotto nel 2001 in inglese con modifiche significative alla struttura interna, inclusa la soppressione di tre capitoli al fine di rendere più chiaro l’intento del libro, che vuole presentarsi come una «storia concettuale dell’arte moderna». Ed è su questa versione inglese, che, per volere dello stesso Belting, si sono basate la traduzione francese e quella italiana, la cui curatela merita certamente un plauso per l’attenzione e la meticolosità con cui è stata condotta. L’idea da cui muove Belting è che l’arte moderna – espressione con la quale definisce quell’insieme di movimenti artistici che si sono sviluppati dall’inizio dell’Ottocento fino agli anni Sessanta del Novecento – ha alimentato e veicolato la diffusione di “narrazioni mitiche” che le sono derivate dalla letteratura e dalla riflessione filosofica. Uno di questi miti, anzi certamente il più rilevante tra loro, è la fiducia nella possibilità di realizzare un’opera perfetta, proprio come quella a cui anela Frenhofer, il pittore protagonista de Il capolavoro sconosciuto di Balzac, scritto da cui Belting non solo trae ispirazione per il titolo, ma a cui dedica anche una raffinata analisi, condotta attraverso un confronto sia con il riadattamento cinematografico di Jacques Rivette, sia con il romanzo di Zola L’opera e con il racconto di Henry James La Madonna del futuro.
Leggendo il volume di Belting, peraltro riccamente illustrato, scopriamo che la ricerca, a tratti ossessiva, del capolavoro assoluto si diffuse con la nascita dei primi musei europei e con le accese discussioni sul loro statuto. Da una parte, infatti, vi era chi sosteneva che la funzione dei musei dovesse consistere nel documentare tutti gli stadi e tutte le fasi della storia dell’arte, almeno quella occidentale; dall’altra, chi riteneva che essi dovessero limitarsi a presentare allo spettatore soltanto i momenti più riusciti di questo percorso, esponendo al pubblico dei modelli di gusto da cui trarre ispirazione. In breve, si assistette allo scontro tra una visione per così dire democratica e una elitaria della fruizione dell’arte, entrambe percorse in modo più o meno esplicito dal «culto dell’opera», che trova una delle sue massime espressioni nella ricezione della Madonna Sistina di Raffaello, a cui Belting riserva un’ampia sezione del suo studio. Probabilmente commissionato da papa Giulio II per la chiesa piacentina annessa al monastero benedettino di San Sisto, alla metà del Settecento il quadro fu acquistato da Augusto III, elettore di Sassonia e re di Polonia, e perciò trasferito a Dresda. Da allora si faticherebbe a trovare un solo grande nome della cultura tedesca, a partire da Winckelmann, che non ne abbia parlato, con toni nella maggior parte dei casi entusiastici. Nel 1797, nelle Effusioni del cuore di un monaco amante dell’arte, basandosi su una testimonianza attribuita fittiziamente a Bramante, Wackenroder considera la Madonna Sistina come il frutto di una visione di cui fu testimone il «divino Raffello». L’artista urbinate avrebbe manifestato fin da bambino uno speciale attaccamento a Maria, tanto da esser colto da malinconia al solo pronunciare a voce alta il suo nome. Iniziato alla pittura, avrebbe coltivato l’ambizione di rappresentare l’immagine della Madonna, ma ogni volta che vi si cimentava sentiva di non possedere le forze per completarla. Talvolta, aveva l’impressione che un raggio di luce colpisse la sua anima, ma l’illuminazione durava soltanto un istante e non vi era modo di trattenerla oltre. Una notte, però, fu attirato da un bagliore sulla parete di fronte al suo letto. Si accorse allora che il dipinto della Madonna, al quale stava lavorando, ma che non aveva ancora concluso, aveva subìto una profonda trasformazione. La tela lasciava ora trasparire la divinità del soggetto rappresentato, l’immagine sembrava fissarlo e pareva quasi animata, al punto da volersi muoversi. Riavutosi dallo stupore, la mattina successiva Raffaello riuscì finalmente a ritrarre le vere fattezze della Madre di Dio. Ecco allora che la Madonna Sistina diventa per Wackenroder il mirabile compendio della pittura raffaellesca, così come l’artista stesso l’aveva descritta in una celebre lettera a Baldassarre Castiglione, parlando del fatto che si serviva di una «certa idea, che mi viene alla mente». In termini simili a quelli di Wackenroder, si esprime nel 1799 August Wilhelm Schlegel (o meglio sua moglie Caroline) nel dialogo I quadri, pubblicato sul terzo fascicolo della rivista «Athenaeum» e ambientato proprio nella Galleria di Dresda. Nel corso della conversazione, Louise (alter ego di Caroline) propone un’analisi delle figure presenti nell’opera, interpretandole come differenti forme di devozione. Quella dell’uomo anziano è una devozione fiduciosa e ardita, perché capace di volgere lo sguardo laddove effettivamente tende il suo sentimento; gli occhi bassi della donna, invece, tradiscono una devozione pudica e umile; quella degli angeli, infine, è una devozione infantile, che non si esprime nella preghiera perché non ha nulla da richiedere, ma da cui promana innocenza e gioia. Ad ogni modo, è la dimensione sovrumana del dipinto a colpire lo spettatore tanto che Louise chiede a Reinhold, uno dei suoi interlocutori: «dite, chi non si prostrerebbe volentieri accanto a queste figure inginocchiate davanti alla sublime Vergine?». E aggiunge che per lei non sarebbe affatto un rischio diventare cattolica o «pagana», se fosse Raffaello a officiare i riti della sua nuova religione. Il dialogo si chiude con una promessa di Reinhold: la prima Madonna che dipingerà sarà dedicata a San Luca e a «San Raffaello». Ancora per il Wagner di Religione e arte (1880) il quadro mostra «la perfezione del miracolo divino», dando vita a una bellezza del tutto estranea al mondo antico perché scevra da qualsiasi forma di lussuria e perché capace di trascendere la realtà e cogliere la purezza dell’idea. Soltanto Nietzsche ha il coraggio di proporre una lettura controcorrente. Ne Il viandante e la sua ombra, sostiene che la visione di Raffaello ha ben poco di soprannaturale, ma al contrario lascia trasparire una carnalità tutta terrestre. Sarebbe, infatti, «la visione della futura sposa, di una donna intelligente, di animo nobile, silenziosa e molto bella, che porta in braccio il suo primogenito». Nella scelta tra l’atteggiamento del vecchio e della giovane, Nietzsche non ha dubbi: «Venerino pure qui i vecchi che sono avvezzi al pregare e all’adorare, come il venerabile vegliardo sulla sinistra, qualcosa di sovrumano: noi più giovani, così sembra gridarci Raffaello, vogliamo stare dalla parte della bella fanciulla sulla destra, che con il suo sguardo tentatore e tutt’altro che devoto dice a quelli che osservano il quadro: “Non è vero? Questa madre e il suo bambino – non è una vista piacevole e invitante?». Non siamo più di fronte al divino Raffaello di Wackenroder o al Raffaello “canonizzato” di Schlegel, ma all’«onesto» Raffaello, in grado di sovvertire le intenzioni dei suoi stessi committenti. Questo carattere immanente attrae persino Freud, che nel 1883 scrive all’allora fidanzata Martha Bernays che la Madonna di Raffaello – a differenza della Madonna del borgomastro Meyer di Hans Holbein il Giovane, conservata sempre a Dresda – gli appare come «un’affascinante creatura umana», una fanciulla di appena sedici anni che «guarda con tanta freschezza e innocenza verso il mondo».
Espunto il carattere religioso dall’arte, rimase però l’ossessione per la ricerca del capolavoro (si pensi, solo per fare un esempio citato da Belting, al fascino esercitato dalla Gioconda). Nemmeno le avanguardie del primo Novecento, pur con la loro potente carica sovversiva e la denuncia delle derive mercantili e industriali, riuscirono a liberarsi realmente del dominio dell’opera, ma continuarono a perseguire, consapevolmente o meno, il «sogno dell’arte assoluta». Soltanto nel secondo dopoguerra, con la messa in discussione dei concetti di soggetto e di autore, ormai avvertiti come un retaggio del moderno da superare, iniziò a venir meno anche il rapporto diretto tra artista e opera. Le performance, gli happening e le installazioni sottolineavano quanto fosse ormai divenuta inutile la “mano” del loro realizzatore, aprendo nuove strade all’espressione e nuovi spazi di libertà, così come di critica sociale e culturale. Eppure, in questo processo di emancipazione, che prosegue tuttora, alterando momenti di radicalità a fasi di ripiegamento, l’opera di tanto in tanto riaffiora, vuoi come citazione, vuoi come ricordo, generando l’impressione che l’epoca del culto dell’opera non sia terminata del tutto.