Quando condotte con cura e perizia, le traduzioni di testi che appartengono alla tradizione del pensiero scientifico e filosofico sono certamente meritevoli della più alta attenzione. Lo sono ancora di più, se possibile, quando rendono finalmente disponibili alla comunità degli studiosi, così come al lettore colto, opere a torto sottovalutate. È il caso dei Beyträge zur Naturgeschichte di Johann Friedrich Blumenbach, che ora appaiono nell’attenta versione di Mario Marino (già curatore della ristampa tedesca, pubblicata presso la prestigiosa Olms Verlag nel 2014), condotta a partire dalla prima edizione delle due parti che li compongono, risalenti rispettivamente al 1790 e al 1811. Attraverso una fine analisi dell’intera produzione di Blumenbach e del suo epistolario, Marino ricostruisce la genesi dell’opera, ne riconosce la centralità all’interno del percorso intellettuale del naturalista tedesco e il ruolo svolto nell’evoluzione della storia naturale di età moderna e contemporanea. Arricchiscono il volume un’appendice iconografica in cui vengono riprodotte le illustrazioni realizzate dall’incisore di origini polacche Daniel Chodowiecki, nonché un apprezzabile apparato critico, in cui si dà conto delle aggiunte e delle modifiche tra la prima e la seconda edizione delle due parti. Lo scritto di Blumenbach viene così sottratto a un lungo destino di marginalità, che risale almeno alla fine dell’Ottocento, quando negli ambienti antropologici europei si iniziò ad avvertire la necessità di un generale rinnovamento degli studi craniologici. Da più parti, infatti, si prese a denunciare il predominio della craniometria, specie di area francese e tedesca, che aveva condotto a un’incontrollata proliferazione di strumenti e indici facciali e scheletrici, giudicati incapaci di individuare nel concreto le differenze tra i gruppi umani. Contro l’artificialità delle misure, i riformatori invocavano l’adozione di un metodo «naturale» e «razionale» di riconoscimento e conseguente classificazione delle disuguaglianze umane, fondato su quei prìncipi di concisione e chiarezza che avevano già ispirato le nomenclature in campo botanico, zoologico e mineralogico. Alla base del nuovo metodo doveva esservi l’osservazione diretta della forma della testa, mentre le misure dovevano essere utilizzate soltanto per confermare o smentire l’ispezione morfologica. Il movimento ebbe uno dei propri epicentri in Italia, dove la riforma fu perseguita con vigore da due personalità eminenti dell’antropologia, Paolo Mantegazza e Giuseppe Sergi. Nel breve periodo i fermenti riformistici prestarono il fianco ad accuse di scarsa oggettività (appariva, infatti, del tutto priva di senso la volontà di abbandonare la “certezza” delle misurazioni a favore di una mera valutazione visiva del cranio), ma sulla distanza riuscirono a imporsi. Già dall’opposizione terminologica tra artificialità e naturalità, era comunque evidente il richiamo a Blumenbach. Si trattava ovviamente di un Blumenbach riveduto, e talvolta corretto: dal naturalista tedesco si riprendeva il concetto di varietà, talvolta preferito a razza, ma lo si criticava per la sua eccessiva estensione; si sottolineava l’importanza della norma verticalis (ossia della visione del cranio dall’alto), ma la si inseriva, come accade in Sergi, all’interno di un radicale poligenismo; si recuperava, infine, l’idea dell’antropologia come scienza naturale dell’uomo, ma era lasciato cadere qualsiasi richiamo al concetto di Bildungstrieb, così centrale nella riflessione di Blumenbach, ma anche per gran parte della cultura tedesca dell’Ottocento. Il Blumenbach a cui si faceva più volentieri riferimento era quello della dissertazione dottorale De generis humani varietate nativa, citata in particolare nella terza edizione del 1795 (la prima risaliva al 1775), in cui, prendendo le distanze da Linneo, il naturalista tedesco era giunto a distinguere cinque varietà umane principali, che erano il risultato della «degenerazione» di un’unica specie primitiva (la cosiddetta «razza-stipite», Stamm-Rasse): la caucasica, la mongolica, l’etiopica o negra, l’americana e la malese. In questo contesto, sembra sorprendente che non fossero mai evocati i Beyträge, pure disponibili in una parziale traduzione italiana dell’inizio degli anni Venti del XIX secolo. Nel testo, infatti, si trovavano materiali di sicuro rilievo per i craniologi del tempo.
Blumenbach vi ribadiva l’esistenza di cinque varietà umane (denominate nell’originale Spielart e Varietät), fondando questa convinzione su tre assunti fondamentali, che assumono la forma di vere e proprie «regole» di metodo. Anzitutto, l’adozione di un’analisi comparativa, secondo la quale l’uomo è parte del regno naturale: la struttura e il funzionamento del suo organismo devono essere costantemente confrontate con gli altri «corpi organizzati» che esistono in natura, ancora loro frutto di una serie di degenerazioni e «tralignamenti». Da questo principio ne discende un secondo: le differenze tra le varietà umane, e tra le specie animali, non possono essere in alcun modo assolutizzate, ma deve essere accordata un giusto peso alle gradazioni e alle sfumature. In terzo luogo, Blumenbach invoca il ricorso a un’equilibrata combinazione tra quella che definisce una «conoscenza intuitiva», nel senso kantiano di conoscenza sensibile, e il confronto tra le notizie e i dati provenienti da «testimoni capaci e credibili». A tal proposito, Blumenbach confessa di aver letto l’intera biblioteca di scienze naturali dell’Università di Gottinga, redigendo estratti di tutti i testi passati in rassegna. Un intero capitolo della prima parte è poi dedicato alla confutazione dell’idea per cui i «Negri» possederebbero una conformazione fisica differente da quella degli altri uomini e al contempo sarebbero da considerarsi inferiori in quanto a capacità intellettuali e spirituali. Da una parte, Blumenbach sostiene che non vi è in loro alcun carattere o tratto esteriore che possa distinguerli dal resto dell’umanità – il colore della pelle e i capelli crespi sono comuni ad altri gruppi – e che, in base alle osservazioni da lui condotte sia di persona sia sulle sue collezioni, non esistono due crani di «Negri» che possiedono una struttura identica. In alcuni casi, la gradevolezza dei tratti dei volti delle donne negre è tale da avvicinarle alle dame europee. Dall’altra parte, per quanto riguarda le qualità spirituali, i «Negri» non soltanto sono viaggiatori formidabili, ma sono anche versati in campo musicale, nell’artigianato, in medicina e in letteratura. Ed è qui che Blumenbach si richiama ad alcune tesi sostenute dal movimento abolizionista, dedicando particolare attenzione alle figure di Ignatius Sancho e Gustavus Vassa, che gli appaiono espressione di due diversi modi di integrarsi nelle società europee: mentre Sancho sembra trovarsi a proprio agio nel “gran mondo”, grazie alla sua cordialità e alla sua vivacità d’animo, Vassa sembra aver conservato alcune caratteristiche della sua comunità di provenienza, come la superstizione e l’inclinazione alla malinconia. Una diversità di temperamento che, per Blumenbach, è ascrivibile al loro differente percorso esistenziale, più crudele per Vassa che per Sancho, essendo rimasto il primo più a lungo in balìa della «disonestà dei bianchi». Queste considerazioni consentono a Blumenbach di affermare che non è a conoscenza di «alcun popolo cosiddetto selvaggio che si sia distinto per tali esempi di perfettibilità e perfino di capacità culturale scientifica e che, per questo tramite, si allacci più da vicino ai popoli più colti della terra quanto i Negri».
La seconda parte dei Beyträge è invece dominata dalla storia di un «ragazzo selvaggio», ritrovato nel 1724 nelle campagne di Hameln, ribattezzato Peter e ben presto inviato in Inghilterra alla corte di re Giorgio I. Anche in quest’occasione, Blumenbach propone ai suoi lettori una lezione di metodo, procedendo a una rigorosa comparazione delle fonti e dei documenti che aveva a disposizione sulla vicenda. Da questa analisi conclude che Peter non imparò mai a parlare, ma si limitò ad emettere suoni inarticolati; che mantenne una corporatura robusta con tratti giovanili anche in età avanzata (morì nel 1785); che, dopo i primi tempi di eccessi, fu moderato nell’appetito; che non mostrò mai alcuna inclinazione né verso il denaro né verso le donne; che sviluppò un certo senso per la musica, tanto da essere capace di riprodurre melodie non troppo complesse; che riuscì, se adeguatamente indirizzato, a portare a termine semplici lavori manuali. In breve, Peter rimase sempre «una creatura d’animo buono, innocua e docile». Tuttavia, proprio in ragione della «vita vegetativa» che condusse, del suo essere «assolutamente niente altro che uno scimunito muto, ebete» e del fatto di essere stato probabilmente abbandonato dalla famiglia di origine, Peter non può considerarsi un uomo allo stato di natura poiché l’uomo «è nato per essere l’animale domestico più perfetto, a ciò destinato direttamente dalla natura. Altri animali domestici furono perfezionati solo per il suo tramite. Egli è l’unico che perfeziona se stesso». Se la domesticità è una caratteristica originaria e ineliminabile dell’uomo, allora non esiste né l’Homo sapiens ferus di Linneo né il bon sauvage di Rousseau e lo stato di natura è soltanto un’invenzione dei «sofisti». Un’affermazione, quella di Blumenbach, che suona come l’atto fondativo dell’antropologia moderna.