Questa è una storia del liberalismo, della sua crisi, consumatasi tra Ottocento e Novecento, e della sua rinascita, iniziata già negli anni Trenta nei sotterranei della teoria di una piccola ma agguerrita comunità di studiosi, soprattutto filosofi ed economisti, e dispiegatasi pienamente nei tardi anni Settanta del secolo scorso. Ma dire così non sarebbe né sufficiente né corretto, perché è del liberalismo "classico" che Antonio Masala ci narra questa storia di crisi e rinascita, e l’aggettivo segnala quanto composita e differenziata al proprio interno sia la famiglia politico-ideologica del liberalismo. L’Autore mostra di essere troppo profondo conoscitore della materia per lasciarsi ingannare dall’idea che quanto si presenta nel Novecento come classical liberalism sia però l’esatta, quasi fotografica, riproduzione di idee e principi elaborati alle origini della formazione di una teoria liberale. Nel senso che la matrice lockiana è, sì, riconosciuta e recuperata dai filosofi del "liberalismo classico" novecentesco quale nucleo fondativo obliato e rinnegato, ma nell’operazione di recupero si sono avuti robusti innesti di nuovi elementi, tutti dettati dall’urgente necessità di rispondere alle sfide poste dalle altre famiglie filosofico-politiche sorte in Europa e America e dalle mutazioni subite dalla stessa teoria liberale, anche per mano di chi pur continuava a professarsi "liberale". E liberale forse continuava effettivamente a esserlo, aggiunge Masala, il quale non sposa in pieno le posizioni dei principali protagonisti della sua storia, non solo gli esponenti della cosiddetta Scuola austriaca, nelle sue diverse generazioni, da Ludwig von Mises a Friedrich August von Hayek, ma anche Luigi Einaudi in Italia e Lionel Robbins in Gran Bretagna, nonché, negli Stati Uniti, sia un gruppo di economisti dell’Università di Chicago sia gli esponenti della cosiddetta Old Right (Albert Jay Nock, Frank Chodorov, John T. Flyn, H.L. Mencken e Felix Morley), libertaria e antirooseveltiana. Il lavoro di Masala ha il pregio di muoversi tra filosofia e storia nell’analisi delle vicende attraverso cui la teoria liberale è passata e si è trasformata in oltre un secolo, dall’esplodere degli effetti della rivoluzione industriale, e la relativa emersione della delicata "questione sociale", fino alla conflagrazione dell’Europa, devastata da due guerre mondiali e dagli stermini di massa perpetrati dai regimi totalitari. Eppure, all’indomani del 1945, non pochi furono coloro che gettarono l’intera colpa di quanto poco prima accaduto al liberalismo, alla sua teoria e alle sue applicazioni pratiche, politiche e istituzionali. Lo stesso era accaduto tra fine Ottocento e inizio Novecento a seguito dei primi effetti dell’industrializzazione e, con ancora maggior clamore, all’indomani del crollo della borsa di Wall Street e della grande crisi del 1929. Critiche che provenivano anche da ambienti non completamente avversi alla tradizione liberale, ma solitamente assai ostili alla modernità. Si pensi ad autori come Leo Strauss, John Hallowell o Eric Voegelin. Nel caso di questi ultimi due studiosi un ruolo cruciale giocava il peso attribuito al cristianesimo, della cui eclisse veniva accusato anche il liberalismo. In altri casi, come quelli di Sheldon Wolin o Carl J. Friedrich, faceva aggio l’anti-individualismo e quale rimedio si invocava un recupero della comunità. Ma fu di Wilhelm Röpke la critica forse più forte, perché interna, a un liberalismo inteso quale dottrina fondata sull’idea del mercato e della convivenza civile come capaci di autoregolarsi senza l’intervento "generatore" del potere politico. È il meccanismo "a mano invisibile" a essere generatore di ordine sociale: questa è la peculiarità e originalità del liberalismo classico; questo è pure il suo punctum dolens, altamente e perennemente controverso. L’impressione è che, alla luce della prolungata crisi finanziaria iniziata in Occidente tra 2007 e 2008, le obiezioni e i correttivi presenti nell’elaborazione dell’Ordoliberalismus di Röpke tornino oggi a essere validi e possano costituire un viatico per una difesa realistica del liberalismo in questo avvio di nuovo secolo. Eppure la ricostruzione storica e teorica di Masala ci mette in guardia anche dal rischio di una drastica riduzione delle libertà individuali fondamentali che si corre ogni volta in cui, con troppa disinvoltura ed eccesso di rigorismo, si invocano il ritorno all’etica e il primato della politica. E, in tal caso, il liberalismo classico si accrediterebbe come soluzione migliore. Lasciare al lettore una simile ambivalenza di giudizio è l’ulteriore pregio di questo libro.