Una “claque cognitiva”, una “sterminata periferia del sociale”, una regola – e non l’eccezione – nei discorsi comuni e nel processo di formazione delle opinioni. Ma anche un desiderio inconfessabile, che ribolle nei sotterranei dell’ufficialità e delle convenzioni, legato a stereotipi, pregiudizi, credenze, superstizioni, odi etnici e razziali. La diceria – che per i greci, con il nome di Ossa, era messaggera di Zeus ed essa stessa divina – è l’oggetto di questo libro di Sergio Benvenuto. Essa permette – spiega l’autore – di far emergere qualcosa di socialmente rimosso, qualcosa che non trova posto (almeno per il momento) nel discorso pubblico, ufficiale, autorevole e che dà voce a una parte nascosta e spesso aggressiva del pensiero collettivo. La pratica sociale del pettegolezzo è una specie di anti-Panoptycon, cioè un dispositivo inverso a quello di Bentham reso celeberrimo da Foucault nel suo libro sul sistema carcerario: gli sguardi dei cittadini-spettatori convergono verso la magione del potente – o del vicino di casa – che si trova ad essere trasparente al centro del sistema. Le prime ricerche sistematiche sulle dicerie iniziano negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, quando alcuni psico-sociologi vengono spinti a scoprire il meccanismo di produzione delle voci. Nascono così i lavori classici di Allport e Postman e, in seguito, nuove ricerche che sosterranno una delle grandi convinzioni della sociologia e della psicologia del Novecento: la critica dell’oggettività. Nel campo delle dicerie – sostiene Benvenuto – entra in gioco la forza mitopoietica dei popoli, l’insopprimibile impulso espressivo a creare miti, leggende, favole, credenze avvalendosi di alcuni, pochi, luoghi comuni dell’immaginario collettivo. Tuttavia, queste creazioni spontanee possono essere interpretate in chiave clinico-freudiana – cioè come manifestazioni e tentativi di soluzione di conflitti e contraddizioni di una cultura – oppure in chiave mimetico-darwiniana, cioè leggendo il fenomeno in chiave di metafora epidemiologica e di contagio isterico. Spesso intrise di contenuti fobici e persecutori che non riducono l’angoscia ma la esprimono, le dicerie presentano nelle forme del pericolo reale un’interdizione morale. E talvolta assumono – per esempio nel caso delle voci che riguardano prodotti alimentari industriali – la forma di un apologo morale anti-industrialista, ecologista e al tempo stesso conservatore che insiste sul pericolo contaminante dell’artificioso nascosto dietro il velo seducente delle merci.