I fatti seguiti all’11 settembre 2001 hanno acuito la tendenza – in atto da decenni con la crisi degli stati nazione – a far coincidere i popoli con le culture e le religioni, ridisegnando in questo modo una mappa del mondo su base etnica o religiosa. Si assiste, afferma l’autore, a un eccesso di attenzione attorno alle culture, alle diversità e alle identità. Il problema è che l’accento viene sempre posto sulle differenze e non sugli elementi comuni, trascurando il fatto che le culture sono costituite da tutti gli elementi che le hanno attraversate nel corso del tempo, facendogli perdere la purezza originale. Questa enfasi conduce parimenti a una crescente attenzione verso il locale. Dietro i tanti conflitti culturali che attraversano il nostro tempo si celano però spinte che hanno un’altra natura. Si utilizza lo scontro culturale come una maschera che nasconde le vere radici della questione, presentandone solo i tratti più estremi. L’abusato termine multiculturalismo dovrebbe indicare l’incontro con persone in carne e ossa, portatrici prima di tutto di individualità e di esigenze personali. Spesso attraverso un uso qualunquistico della comunicazione mediatica e scientifica si opera una classificazione “culturale” degli individui: troppo spesso siamo noi a decidere cosa è culturale per gli altri, finendo per costringere un individuo a indossare la “divisa” della cultura d’origine, senza concedergli la possibilità di contaminarsi. Utilizzando categorie collettive e inglobanti, che omogeneizzano identità e storie, si viene a creare l’identità unica dello “straniero”, “diverso per natura, incompatibile con i nostri costumi”. Questa operazione determina un irrigidimento che spesso porta all’annullamento di ogni forma di negoziazione, benché siano saltati i confini che determinano territori, culture, società. Operando uno spostamento dal piano biologico (la razza) a uno simbolico, viene consolidandosi un razzismo ideologico che enfatizza le caratteristiche culturali. La paura dello straniero è una costruzione ideologica che trasforma quel senso di disagio in un atto politico che prelude ad azioni violente. Si arriva anche a manipolare il passato in funzione del presente e si impone una visione comune calata dall’alto, per legittimare i desideri di chi si richiama a un’origine avvenuta in un passato lontano. L’ossessione per le origini è il segnale di una volontà di assolutizzare le culture, eliminando le esperienze storiche e politiche degli individui e delle comunità. Ci si trova sempre più spesso a parlare di identità proprio mentre la globalizzazione ci sta avvolgendo ogni giorno di più. Creare identità, conclude Aime, significa anche negarla agli altri e oggi la forma più accentuata di differenza di classe è l’esclusione.