In quasi tutte le culture antiche e moderne il suono ha un valore demiurgico, fondatore, iatrico-taumaturgico; la voce, prima ancora di essere supporto e canale di trasmissione delle parole attraverso il linguaggio è "imperioso grido di speranza, pulsazione universale e modulazione cosmica". Le grandi religioni monoteistiche sono religioni del soffio, della voce-che-chiama, come accade a Saul sulla via di Damasco, a Maometto, a Mosé, ad Abramo, ai patriarchi e ai profeti veterotestamentari, scrive Corrado Bologna, docente di Filologia romanza a Chieti e studioso di storia delle idee fra tardo antico e medioevo, di lirica medievale e di ermetismo rinascimentale. Nell'inconscio umano la voce rappresenta una forza archetipica generatrice di miti e ricca di significazioni religiose. Tuttavia, sul suo timbro si esercita una pressione normalizzatrice e moralizzatrice della cultura, che mira all'educazione e al controllo del suono, alle discipline delle espressioni corporee; che impone, nella società europea più cerimoniale dell'età moderna – quella fra il XVI e XVII secolo – una voce di circostanza, una simulazione finalizzata all'adeguatezza rispetto ad un catalogo normativo. "Il diritto di esistere e di parlare è affidato, ormai, alla scrittura, non più alla voce. Chi presterebbe attenzione e fiducia ad una testimonianza orale che non venisse trascritta o controfirmata?" Ritualizzando persino la pratica della voce la cultura si difende come da minacce oscure. Nella cultura occidentale moderna, che ha laicizzato la pratica taumaturgica, svuotato la voce del suo valore demiurgico e incanalato le istanze vitalistiche del suono nel galateo, persiste uno spazio – scrive Bologna – in cui la pura voce, riecheggia, uno spazio arcaico e sciamanico occupato dalla psicoanalisi.