Accade talvolta che uno storico di sopraffina erudizione, dotato di strumenti di indagine squisitamente interdisciplinari si riveli un “detective” di prima grandezza, capace di ricostruire l’opera perduta di un grande artista. Tale si dimostra in questa sua ultima fatica lo storico torinese Massimo Firpo, impegnato da almeno un decennio nell’attenta analisi della decisiva ed originale influenza esercitata dal sostrato ereticale “valdesiano”, nella storia culturale italiana del periodo 1530-1560. Il magistero “teologico” napoletano di Juan de Valdes, scomparso nel 1541, fu caratterizzato dall’accettazione del principio luterano della giustificazione “sola fide”, ma restò per altro alieno da ogni superba “hybris” ereticale in virtù di un sostanziale indifferentismo spiritualistico nei confronti della dimensione sacramentale e visibile della Chiesa. Anche nella Firenze di Cosimo I de’ Medici vasta fu la circolazione degli scritti valdesiani. In tale humus sorse e tramontò presto negli anni 1545-1547 la stella del “letterato” Benedetto Varchi, che, secondo l’audace ipotesi del Firpo, sarebbe stato l’ispiratore dei temi iconografici dei perduti affreschi del Pontormo. Questi, raffiguranti secondo i contemporanei la Creazione della donna, il Giudizio, il Diluvio e scene dell’Antico Testamento, abbellirono la chiesa medicea di S. Lorenzo, andarono purtroppo distrutti nel 1738, ma già da due secoli giacevano sepolti sotto l’interessata stroncatura del Vasari. Di null’altro si sarebbe trattato se non della traduzione – in un volontario e giganteggiante stile michelangiolesco – del catechismo valdesiano per i fanciulli che reca il titolo di “Qual maniera si dovrebbe tenere a informare insino dalla fanciullezza i figliuoli de Christiani delle cose della religione”. L’assenza nel ciclo – dimostrata dagli schizzi preparatori e dalle testimonianze letterarie coeve – di qualsiasi riferimento alla funzione mediatrice della Chiesa gerarchica, la mancata raffigurazione dell’Inferno e della resurrezione dei reprobi, l’insistenza su soggetti iconografici come il sacrificio di Abramo, adatti a rappresentare la giustificazione per fede ed il carattere accentuatamente cristocentrico della raffigurazione, dimostrerebbero incofutabilmente la presenza dell’influsso spirituale. Lo stesso duca Cosimo – come per altro larga parte dell’aristocrazia italiana – avrebbe velatamente guardato con simpatia alle idee valdesiane, prima che i decreti del Tridentino, ma soprattutto il rigore inquisitorio prevalso con il pontificato di Paolo IV e la compilazione dell’Indice, spegnessero ogni superstite di “fronda”.