Guardare la guerra. Immagini del potere globale


Nel corso degli anni Novanta lo slancio degli studi culturali ha subìto una battuta d’arresto. Il visual turn e il cosiddetto movimento transgender erano innervati da una radicale sfida politica alla sfera pubblica, resa possibile fra l’altro dal processo di democratizzazione dei media visuali, dalle promesse emancipative della cultura globale e dal libero accesso alla proprietà digitale. Lo sviluppo della globalizzazione ha messo in crisi questo programma e, allo stesso tempo, si è riaffermata prepotentemente la centralità dello Stato-nazione, legata a doppio filo all’inasprimento dell’esercizio del potere, come nel caso della guerra preventiva. È su questo sfondo storico che si inscrivono le riflessioni di Mirzoeff sulla rappresentazione della guerra e sulle conseguenze politiche della “banalizzazione delle immagini”. Infatti la copertura mediatica della guerra in Iraq, fino alla saturazione visiva in ogni sua forma (televisione, internet, giornali), ha avuto un effetto perverso: «Trasformandosi in informazione, l’immagine perde ogni rapporto con la capacità di ricordare e diventa mero strumento di guerra» (p. 88). Immagini-arma così potenti da rendere inservibili le analisi – per quanto raffinate – che ne smascherano le fraudolente manipolazioni e i messaggi di propaganda da queste veicolati. L’autore si serve, a questo proposito, di una serie di riferimenti caleidoscopici (tipici dei cultural studies) – dai romanzi cyberpunk al cinema horror –, di un cortocircuito tra l’Iraq e la metafora babilonese, nonché di un inedito sguardo vernacolare sulla vita quotidiana nei sobborghi urbani americani. Allo stesso tempo si riappropria del concetto foucaultiano di evento, preferendolo a quello di immagine, in quanto viene contemplato anche il luogo in cui si trova lo spettatore e il ruolo dell’immaginario nella costituzione del soggetto visuale. Sempre da Foucault è infine mutuata la riflessione sul panoptikon, malgrado oggi il potere tenda a sottrarsi a quella continua visibilità che ne assicurava il funzionamento automatico. A questo modello subentra dunque, secondo l’autore, una nuova pratica del guardare strutturata all’interno delle nuove dinamiche del potere globale; e soprattutto subentra “l’impero dei campi di detenzione e deportazione”, vero e proprio “modello di organizzazione sociale”, luogo invisibile in cui la sorveglianza pervade ogni suo angolo. Il profilarsi di questa “società a circuito chiuso” obbliga gli studi culturali ad una revisione critica dei propri presupposti: è in questo senso che l’università, come ricordava Edward Said (citato più volte da Mirzoeff), può assurgere ancora a spazio dell’utopia.

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2004
Recensito da
Anno recensione 2006
Comune Roma
Pagine 209
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