Il volume, composto da dodici saggi, è dedicato all’analisi storica e teorica di due fenomeni opposti e complementari che caratterizzano da sempre le società umane: la guerra e la pace. Gli autori hanno competenze diverse – filosofiche, storiche, sociologiche, politologiche, letterarie – e per questo riescono a comporre un ampio caleidoscopio che getta luce anche su questioni relative all’età contemporanea.
«La guerra è un frutto della depravazione degli uomini; è una malattia convulsa e violenta del corpo politico». Con queste parole l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert alla voce Pace condannava la guerra in quanto malattia dello Stato e fenomeno irrazionale, che genera disordine e impedisce la prosperità e la felicità della società. Nel Settecento, secolo di conflitti pressoché continui, il dibattito intellettuale e politico elabora per reazione una critica del fenomeno della guerra, di cui gli esempi più noti sono le riflessioni di Voltaire e Rousseau sul progetto di pace perpetua dell’abate Saint-Pierre. Il discorso illuminista trova il suo culmine nella filosofia della pace kantiana, la cui soluzione cosmopolita si propone di garantire il diritto delle genti e al contempo mantenere il sistema degli equilibri tra gli Stati.
La posizione degli illuministi – tutt’altro che monolitica, come dimostra anche il complesso rapporto tra guerra e teodicea – è solo una tra le molteplici interpretazioni della guerra e della pace che hanno caratterizzato il pensiero occidentale sin dalle sue origini. La narrazione della guerra, che risale ai poemi omerici e prosegue con le Storie di Erodoto, è ripresa dalla storiografia di Tucidide e considerata in una nuova prospettiva. Ne è una spia il termine kinesis, movimento o sconvolgimento, che compare sia nel proemio a proposito della guerra tra Atene e Sparta, sia nell’esordio dell’analisi della guerra civile (stasis) di Corcira. Tucidide istituisce così un paragone tra i due eventi: la stasis è il vertice della guerra, la sua più completa realizzazione. Contrariamente all’immagine tradizionale, il risultato finale della guerra non è l’elevazione eroica, ma la subordinazione dell’intelligenza umana alle passioni e agli impulsi irrazionali.
Da parte sua, il mondo romano testimonia il legame esistente tra politica e religione nella concezione e anche nella pratica della guerra. Nell’antica Roma, infatti, il sistema politico e la sfera religiosa si intersecano a più livelli nell’ambito del cosiddetto culto pubblico: la religione fornisce la strumentazione concettuale e la cornice ideologica di tutti i complessi rituali che ruotano intorno al conflitto, dalla preparazione alla campagna vera e propria fino al ritorno in patria e al ristabilimento dell’ordine.
Frutto della situazione storica contingente, in particolare della lotta tra papato e impero, è la riflessione di Marsilio da Padova, che dalle prime pagine del Defensor Pacis istituisce una netta distinzione tra la condizione passata del regnum Ytalicum e quella attuale. Lotte e invasioni sono all’ordine del giorno e la pace, costantemente minacciata dall’esterno, è considerata una situazione non convenzionale. Se in Tommaso d’Aquino la pace è relazione intersoggettiva fondata sulla quiete, sull’amicizia e sulla carità, in Marsilio da Padova è comunicazione e rete di relazioni tra diverse parti in causa ed è assicurata da specifici dispositivi disciplinari, che regolano le forme di comportamento associativo. La consapevolezza della fragilità delle condizioni su cui si basa la convivenza civile è ben presente anche nella riflessione di Machiavelli, che inserisce la considerazione dei conflitti dal punto di vista politico in una più generale analisi dei principi del mutamento universale. Se la dinamica dei contrari è condizione del movimento della vita e della civiltà, il criterio della produttività del conflitto non implica però che si debba mettere a rischio la conservazione e lo sviluppo della società. Il modello repubblicano non è perciò esente dai conflitti interni al corpo politico, che devono essere opportunamente regolati, ma deve esserlo dai conflitti endemici, che potrebbero degenerare in una guerra civile. Dimostrando una spiccata sensibilità per il nesso tra istituzioni e società, Machiavelli individua quindi una contrapposizione tra virtù repubblicane e diseguaglianze economiche: la radicale diseguaglianza della proprietà si traduce politicamente nella soggezione dei meno abbienti e nell’eccessivo interesse verso il benessere privato, due situazioni che finiscono inevitabilmente per perturbare la stabilità della repubblica.
Il rapporto tra guerra e diritto è soggetto a un significativo ripensamento all’interno del dibattito spagnolo del primo Cinquecento sulla «questione degli indios». Da un lato, infatti, si rifondano le relazioni giuridico-politiche tra gli uomini e tra gli Stati, come nelle riflessioni dell’umanista Juan Ginés de Sepúlveda, che rielabora la dottrina aristotelica delle gerarchie naturali per giustificare la considerazione degli indios come uomini inferiori, incapaci di governarsi e dediti ad usanze contro natura. Dall’altro, si sviluppa una moderna ideologia della guerra coloniale, che trova le sue radici nella teoria della guerra giusta elaborata da Francisco de Vitoria. Si tratta di un vero e proprio processo di rinegoziazione intellettuale, in cui molti interpreti vedono l’origine dell’universalismo europeo e l’avvio di un’economia-mondo capitalistica.
Un altro tema di lungo periodo che ha appassionato gli scienziati, fin dalla metà del XIX secolo, è se la guerra o la pace possano essere considerate necessità biologiche inscritte nella natura umana. La ricerca scientifica contemporanea ha contribuito a sfatare l’innatismo della violenza e dell’aggressività, sottolineando al contrario la presenza di strategie adattative fondate sulla solidarietà di gruppo e sull’altruismo. Accanto a queste pratiche di cooperazione, però, si è constatata la diffusione di forme di aggressività individuale e di violenza collettiva in molte specie di primati con una vita sociale complessa. Si tratta di episodi che hanno quasi sempre per oggetto la riproduzione o la conquista di risorse ma che solo nell’uomo assumono il volto della guerra istituzionalizzata. Ogni tentativo di fornire basi biologiche o razziali a una presunta predisposizione umana o bellica o pacifica è estremamente controverso, come dimostra il caso del pacifismo di carattere eugenista diffusosi in Europa e negli Stati Uniti nel primo Novecento. Gli eugenisti pacifisti (soprattutto antropologi e biologi) ritenevano che solo nelle prime fasi dell’evoluzione sociale la guerra aveva svolto una funzione positiva, mentre in seguito era stata resa progressivamente inutile e dannosa dall’azione della civiltà. In quest’ottica, i conflitti moderni erano deleteri sia perché risvegliavano nell’uomo un fondo di violenza istintuale, sia perché svolgevano una selezione a rovescio, uccidendo la parte migliore della nazione.
Le guerre hanno da sempre fornito ampio materiale alle riflessioni di artisti e scrittori, messi di fronte all’esigenza di dover concettualizzare esperienze nuove: il primo conflitto mondiale, ad esempio, è stato descritto nella letteratura italiana e straniera come una «guerra di talpe», a testimonianza della disillusione dei soldati per uno scontro che si preannunciava breve ed eroico e si rivelò invece lungo e logorante. È nelle trincee che cresce e si consolida un senso di fratellanza che genererà nel periodo postbellico un abisso tra combattenti e non combattenti, visibile non solo nella memorialistica ma anche nei romanzi sul tema. Il secondo conflitto mondiale, invece, è stato vissuto dagli italiani come una «guerra civile», dalla geografia ben più estesa e dall’impatto emotivo ancora più lacerante, perché combattuta tra compatrioti, tra chi ha scelto di rimanere fedele alle camicie nere e chi ha scelto di far parte della Resistenza.
Rispetto ai due conflitti mondiali, è evidente che negli ultimi decenni la guerra ha subìto cambiamenti macroscopici dal punto di vista tecnologico, politico e geografico. Il sociologo Ulrich Beck ha introdotto il concetto di «società del rischio» per definire la diffusa condizione di pericolo causata sia dalle conseguenze negative della globalizzazione (come le crisi finanziarie e l’insicurezza ambientale) sia dalla mobilità delle minacce per gli equilibri nazionali e internazionali (il terrorismo). Se è vero che una parte crescente della società è avulsa dalla guerra, non lo è però dalla violenza, che gradualmente sembra passare dalla gestione degli Stati a quella di attori non statali o addirittura di singoli individui. La globalizzazione non ha dunque risolto la questione della guerra e della pace, ma semplicemente gli ha conferito forme nuove, sulle quali è opportuno continuare a riflettere.