Il percorso dell’Autore attraverso i conflitti del Novecento e quelli tuttora in corso viene sviluppato partendo dai loro “esiti”, da quei morti che appartengono in misura sempre maggiore alla popolazione civile. Nel trattamento inflitto ai cadaveri degli avversari e dei civili sono racchiusi i predicati che consentono di parlare di tante diverse guerre, delineandone le rispettive tipologie. In particolare si è passati da guerre “simmetriche” – condotte da Stati sovrani di pari potenza militare – a conflitti “asimmetrici” combattuti tra forze dotate di mezzi non proporzionati reciprocamente: per questo motivo coloro che si schierano contro le potenze militari scelgono forme inedite di violenza, contribuendo alla proliferazione dell’uso del corpo umano come arma. L’attuale inizio di secolo ha visto crescere la finzione della negazione della morte (l’opzione “zero morti”) in guerre che non prevedono la possibilità di vedere propri soldati uccisi, come se morire in battaglia fosse diventato un evento che non rientra nella normalità bellica. Quando, al contrario, ciò avviene, significa che la guerra viene usata come una forma di comunicazione: bombe e cadaveri trasmettono messaggi che mirano a conquistare le immagini mentali della popolazione. In quei messaggi vengono incorporati riti e simboli e vi affiora una nuova concezione salvifica della violenza, dispiegata come strumento di rigenerazione spirituale che sminuisce le vite dei singoli, fino ad annullarle arrivando al clamoroso gesto della profanazione dei corpi. A questo livello i nemici sono considerati come portatori di un’alterità tanto radicale da porsi fuori dalla condivisione della comune umanità e per questo motivo è possibile il ricorso all’ostentata profanazione dei loro corpi. La guerra sui civili durante tutto il Novecento restituisce, con una cadenza quasi ossessiva, forme di occultamento e cancellazione dei corpi dei nemici (attraverso l’uso delle fosse comuni o la distruzione dei cadaveri: pensiamo ai desaparecidos in America Latina) che minano le fondamenta culturali e religiose delle società: negando la “certezza” della morte ai familiari si rendono impossibili i riti funerari, così da troncare il percorso della pacificazione del lutto. Restituire una tomba a un corpo è, allora, un atto di rifondazione di una comunità, il primo passo affinché la pacificazione individuale che segue all’elaborazione del lutto diventi anche una vera pace sociale.