Con questo nuovo libro Luisa Muraro prosegue la sua ricerca intorno all’esperienza mistica femminile e la porta fino nel cuore del nostro tempo. Gli scritti delle beghine due- e trecentesche, le «amiche di Dio» cui Muraro ha dedicato numerosi lavori interpretativi, costituiscono una piattaforma, o meglio uno spazio d’incontro, per interrogarsi sul gesto femminile di rivolgersi a Dio: attraverso di loro Muraro si propone di mettere in circolo nel presente un modo nuovo di pensare la differenza di genere. Si tratta di un’esperienza del divino nel segno di una profonda libertà d’interrogazione: come se, questa è una delle idee portanti dell’autrice, nel rapporto con Dio le donne godessero di una suprema confidenza vietata loro in qualsiasi altro ambito di vita da sistemi sociali patriarcali. Le tracce di questo modo di accostarsi non solo all’esperienza vissuta, ma anche ai problemi teologici e filosofici, permangono nella scrittura di Muraro: scrittura incarnata ancor più che autobiografica. Il rapporto con Dio discusso dalla Muraro presenta molti tratti di un’esperienza mistica, anche se alla tradizionale espressione “mistica femminile” l’autrice preferisce quella, di suo conio, di “teologia in lingua materna”, per sottolineare da un lato come l’abbraccio di Dio verso le sue creature si carichi di valenze femminili, e dall’altro come l’accesso a questa esperienza sia caratteristico delle donne e della loro corporeità. Solo attraversando l’esperienza del corpo femminile si può vivere appieno la fragilità iniziale che è propria del divino: è in questo gioco che si realizza la «mediazione vivente». Fragilità iniziale significa anche, nelle parole della filosofa veronese, ammettere di non sapere bene «che cosa chiamo Dio». Il rapporto disegnato in questo libro è infatti quello di un amore senza oggetto: pura gratuità del disporsi nei confronti di Dio, indipendentemente dalla sua risposta o dalle conseguenze dell’atto di apertura verso il divino. Nelle pagine di Muraro, filosofa dal lessico fortemente impregnato di elementi della psicanalisi lacaniana, ciò significa che il Dio di cui le donne fanno esperienza è un Dio non da “usare” ma di cui “godere”. Per molti versi è un Dio che sta per l’amore, la gioia o la libertà. Nel procedimento narrativo e dialogico messo in atto dall’autrice, Dio costituisce quindi un’interruzione, una soglia del discorso che segna la rottura tra la misura umana e la dismisura divina. In questo modo di pensare a Dio, Muraro si colloca all’interno di consolidati dibattiti teologici novecenteschi, alla luce dei quali è possibile e opportuno leggere il suo contributo.