Come sottolineato sia da Giovanni Ibba che introduce il volume di Berthelot, sia da Massimo Giuliani che ne scrive la postfazione, risulta piuttosto curioso un testo monografico che abbia per titolo una domanda sola, senza ulteriori specifiche; anzi, risulta ancora più curioso un testo che ponga sempre nuove domande, che proceda capitolo per capitolo sollevando per prima cosa nuovi interrogativi di natura testuale, linguistica, culturale, ma soprattutto pragmatica. Pragmatica, appunto, perché tali questioni non rimangono senza risposta. Al contrario, il percorso attraverso cui il lettore è condotto è un percorso non soltanto descrittivo di una situazione in essere (o che è stata), ma è anche una proposta concreta per leggere e costruire il presente e il futuro in un modo nuovo. Il testo si interroga infatti su alcuni concetti chiave (o, meglio, parole-bandiera) che costituiscono i mattoni della nostra cultura, del nostro modo di essere uomini, e che hanno stimolato nei secoli il pensiero filosofico e religioso; i termini philantropia, oikeiosis, humanitas, logos, uomo/umanità sono solo alcuni dei vocaboli ricorrenti nel testo e autori come Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, Filone d’Alessandria, insieme ai testi biblici e alla tradizione midrashica ebraica, sono solo alcuni degli esempi che vengono citati per sondare l’incontro-scontro tra Atene e Gerusalemme, ovvero tra le proposte dell’etica umanistica e quelle del monoteismo.
Il volume si articola in sei capitoli, più la lucidissima introduzione che delimita i confini temporali di questo studio: vengono presi in considerazione i testi appartenenti al periodo compreso tra il IV secolo a.C. e la fine del II secolo d.C., le cui implicazioni giungono però fino ai giorni nostri. Nel primo capitolo l’autrice cerca di definire, attraverso un apparato vastissimo di testi anche poco noti, l’etica classica umanistica quale oggetto di indagine privilegiato, sottolineando che sarebbe un errore assimilarla a una sorta di antropocentrismo ateo perché la «virtù d’umanità» che ne è alla base, originariamente concepita come dettata dalla natura, all’inizio della nostra era appare piuttosto come un imperativo divino la cui pratica è direttamente associata all’imitazione di Dio (p. 51). In sostanza il riconoscimento dell’«umanità» dell’uomo passerebbe attraverso il riconoscimento del simile (paradossalmente l’egoismo inteso come amore del sé porterebbe all’altruismo) e comporterebbe l’esercizio della benevolenza verso quest’ultimo. Tuttavia questa definizione, che l’autrice ha ricostruito sulla base di testi appartenenti a periodi e correnti differenti, non è esente da eccezioni, da ripensamenti e ritrattazioni nell’arco del tempo, anche in base alle diverse accezioni in cui viene utilizzato il termine «simile». Berthelot, dunque, diviene abilissima, nel secondo capitolo, a rintracciare le critiche, antiche e contemporanee, a questa etica umanistica classica, a partire da Filone, Carneade, i neopitagorici, fino alle filosofie contemporanee. Nel terzo capitolo, invece, si propone di discutere la possibilità di un’etica umanistica ebraica d’ispirazione biblica. È forse questo il capitolo più denso dell’intero volume, in cui, a partire dalla regola d’oro – già presente in antichissimi testi egiziani, ma conosciuta per Levitico 19, 18 – «amerai il prossimo tuo come te stesso», si asserisce che la Bibbia è suscettibile di un’interpretazione umanistica, ma non possiede totalmente una tale etica (p. 108s.) ed anzi può essere utilizzata a scopi xenofobi e fondamentalisti. Il quarto capitolo è dedicato all’immagine dell’uomo creato a somiglianza di Dio ed al problema che tale somiglianza comporta: se si deve agire come Dio, è necessario punire anche gli empi, concetto che potrebbe dare adito ad aberrazioni di qualsiasi tipo. Nel quinto capitolo, invece, ci viene proposto un ulteriore quesito di stampo etico: se il rispetto dovuto all’uomo non vale che per l’uomo degno di questo nome e non per l’uomo biologico, possiamo ancora parlare di etica umanistica? (p. 139) La risposta ovviamente è sì, ma con le dovute cautele che ci presenta l’autrice. Infine, il sesto capitolo ripercorre i testi che solitamente definiamo «umanistici» (come il Discorso sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola) per determinare l’importanza sancita all’autonomia umana, come condizione perché un monoteismo possa dar vita a un’etica umanistica e perché vi sia quell’umiltà intellettuale e spirituale che riconosce la trascendenza e l’inconoscibilità di Dio e delle Sue verità, dando vita ad una conseguente ermeneutica umanistica.
L’umanesimo, in definitiva, nel volume di Berthelot, è una possibilità che ci viene proposta e che, soprattutto, viene proposta ai grandi monoteismi attraverso l’elencazione di alcune caratteristiche fondamentali che possono integrare la filosofia di Atene con la teologia di Gerusalemme, tra cui la promozione di un’etica della responsabilità, lo sviluppo di una filosofia dell’alterità e l’atteggiamento di benevolenza verso il vivente in generale (p. 179).