Uno dei padri della psicologia sociale, il pragmatista George H. Mead, ci spiega che l’invidioso, molto abile nel pettegolezzo e nella malignità, prova un certo piacere per le sventure altrui, specialmente per quelle che si riferiscono alla "personalità" dell’invidiato. Se è vero, come insegna Nietzsche, che l’invidia è una passione "astuta" che cresce nel silenzio, essa è altresì una passione tristemente sociale, con un potere dilagante e pervasivo: diversamente dalla gelosia, passione squisitamente privata, l’invidia, come narra il racconto biblico di Lucifero, può cambiare radicalmente le sorti del mondo. Sulla base di queste e molte altre tesi interpretative, la filosofa sociale Elena Pulcini, costruisce un percorso critico-genealogico ricco di riferimenti alla tradizione filosofica e letteraria classica (da Omero ed Esiodo e Aristotele a Eschilo, Sofocle ed Euripide) fino alla contemporaneità. Pulcini mette subito in chiaro che l’invidia, come conferma la sua etimologia, si manifesta nei termini di "uno sguardo obliquo, rancoroso, sofferente". Dunque – lo osservò già Francis Bacon – la prima modalità di affermarsi di questa passione è in termini di "sguardi". Questo richiamo a una cultura visuale dell’invidia, è utile per comprendere che dietro lo sguardo dell’invidioso è presente in particolare una vera e propria sofferenza personale (a causa dell’impotenza), provata di fronte alla "qualità" dell’altro, alla sua soggettività. Indubbiamente – e ciò è riconosciuto con ampie convergenze – il soggetto umano, essendo fortemente condizionato dalla hybris, dal "desiderio di espansione", non può non suscitare invidia specialmente in tutti quei casi in cui riesca ad avere successo. Da quest’ultimo assunto, Pulcini deduce attraverso Aristotele e Kant che l’invidia è soprattutto una passione relazionale e relativa, che pone e presuppone un reiterato confronto con l’altro, secondo quello che René Girard ha definito un desiderio mimetico. Un desiderio, quest’ultimo, che spesso è destinato a restare insoddisfatto, finendo per assumere, anche "contro se stessi", la forma di un ressentiment nichilistico. Quando invece l’invidia passa all’azione, talvolta essa si manifesta in azioni drammaticamente distruttive, come dimostrano gli ormai frequenti casi di cronaca nera. Occorre pertanto porre un freno alla hybris, seguendo il monito dei classici. Mentre i Greci proiettarono l’invidia sugli dèi antropomorfi stabilendo così un limite agli umani, troppo umani, desideri di grandezza, nella modernità l’individuo si espone alla "vertigine della libertà", declinando precarietà e ambizione, tanto secondo l’amour propre, che in nome dell’amour de soi. Passando in rassegna i contributi di La Rochefoucauld e Rousseau, Pulcini ci ricorda con Mandeville e Smith che nell’homo oeconomicus l’amore di sé può dare luogo ad atteggiamenti orientati non solo a migliorare la propria condizione, ma soprattutto a ottenere la considerazione sociale, il riconoscimento della propria eccellenza. Verosimilmente, pagando spesso sulla nostra pelle gli effetti a lungo termine delle ambivalenze postmoderne, non possiamo di certo sottrarci al compito storico di rivalutare il tema della felicità e dell’autorealizzazione rispetto a quello del benessere egoista, secondo i molti significati sottesi al concetto di decrescita (Latouche). Facendo interagire tutti questi contributi, per rendere davvero giustizia al mondo infero dell’invidia, Elena Pulcini ci invita dunque ad elaborare, con le passioni, "strategie che puntino sulla capacità soggettiva di combattere le passioni distruttive", cercando sempre di assicurarsi la via del ritorno a se stessi in nome di un saggio impegno autoriflessivo.