È possibile ricostruire la trama delle passioni e degli interdetti che nutrono e regolano la vita di una determinata società prendendo a modello la descrizione delle immagini (ékphrasis) operata dagli uomini che in essa vivono? Le modalità con le quali i critici dell’arte e gli scrittori declinano il rapporto tra «visibile» e «dicibile», immagine e testo, sono davvero rivelatrici dei paradigmi culturali di volta in volta dominanti nelle diverse epoche storiche? Secondo Foucault, dalla cui riflessione scaturiscono le discipline che attualmente vanno sotto il nome di Visual Culture, ogni «sguardo», sia esso «clinico», «estetico», «epistemologico» o «politico», traduce un «atto di potere» e rivela un orizzonte di pensiero che precede e orienta l’esperienza percettiva individuale. Seguendo le orme del celebre autore della Nascita della clinica (1965), Michele Cometa tenta ne La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale di risalire ai fondamenti filosofici e antropologici della modernità facendo leva tanto sui contenuti specifici quanto sulla continuità dei «topoi figurativi e letterari» che hanno animato l’ékphrasis «dalle descrizioni dei grandi capolavori della statuaria antica nell’età di Goethe alla riflessione […] sulle molteplici rappresentazioni della montagna della Sainte-Victoire di Cézanne» (p. 11). L’invarianza degli elementi costitutivi del «regime scopico» (immagini, sguardi e dispositivi), che è alla base delle permanenza delle tecniche relative alla descrizione delle opere d’arte, consente dunque alla Visual Culture di maturare un proprio distinto oggetto di indagine e di costituirsi come scienza autonoma nell’ambito delle discipline umanistiche. Nello stesso tempo – secondo un canone tipicamente «strutturalista» – la complessa interrelazione dei soggetti e degli oggetti che concorrono alla formazione dell’universo visuale induce la teoria letteraria a misurarsi col carattere relativo e contingente delle retoriche ecfrastiche. I procedimenti di denotazione, dinamizzazione e integrazione utili alla «rappresentazione verbale di una rappresentazione visuale» (p. 288) attraversano infatti per intero la storia dell’«inesausto rapporto» tra letteratura e pittura (o scultura) in Occidente. Da Filostrato a Foucault, nei Pensieri sull’imitazione di Winckelmann come nel romanzo di Theodor Fontane intitolato L’adultera – il cui dramma è localizzato nel dipinto da cui pure trae l’incipit – le attribuzioni di significato che presiedono alla verbalizzazione delle opere d’arte vengono prevalentemente realizzate attraverso pratiche di dinamizzazione dell’immagine o dello sguardo dello scrittore capaci di trasportare chi osserva «ben oltre ciò che vede» (p. 98), oppure tramite forme di integrazione chiamate a colmare le lacune della visione con il riferimento a preconoscenze artistiche e culturali del fruitore (p. 116). Nella misura in cui l’esperienza visuale viene a essere mediata dalle «reti di significazione» intessute dallo «spirito oggettivo» (in senso diltheyano) di un’epoca o di una particolare collettività, «l’interpretazione storica e concettuale – scrive Cometa – s’insinua comunque nella descrizione letteraria» (p. 122) e l’ékphrasis diviene «il riflesso naturale di questioni che trascendono […] la teoria artistica» (p. 20). Nel passaggio dal canone oraziano dell’ut pictura poesis – messo in discussione da Lessing per la prima volta nel 1766 – al tradimento delle immagini provocatoriamente adombrato da Magritte nel celebre dipinto Ceci n’est pas une pipe del 1928-1929, non matura dunque soltanto la crisi di un paradigma estetico, ma si consuma anche l’illusione razionalistica di una necessaria connessione tra conoscenza e realtà, ragione e storia. Se il messaggio pedagogico affidato da Filostrato all’ermeneutica dell’immagine presupponeva sia un’«irriducibile reciprocità di verbale e visuale» (p. 65) sia, di conseguenza, un’implicita armonia del cosmo – testimoniata anche dall’osmosi tra le icone e i miti deputati ad integrarle – le ékphrasis di Foucault e Thomas Bernard finiscono col riproporre l’opposizione lessinghiana tra «arti del tempo» (epica, poesia, dramma) e «arti dello spazio» (pittura, scultura, architettura) al fine di svelare l’inadeguatezza del segno rispetto al significato e «l’eterna menzogna […] di una perfetta coincidenza di visibile e dicibile» (p. 290): «Foucault sa che nel moderno l’arte si è fatta imprendibile, perché l’opera d’arte ha rinunciato al suo statuto eccezionale, si è sempre più confusa con il quotidiano, ha perso aura, sacralità e autorevolezza» (p. 296). Compito dell’ékphrasis diviene pertanto quello di denunciare il limite costitutivo di ogni rappresentazione e di mantenere attiva la tensione tra arte e vita: «Se anche solo un quadro fosse perfetto – avrebbe detto Bernhard – la nostra vita non avrebbe più senso, né tantomeno la nostra opera» (p. 331). Spogliata dei suoi riferimenti sacri, l’arte smarrisce ogni capacità mimetica per diventare «pratica della non-somiglianza» (p. 333), luogo di proiezione di pulsioni soggettive destituite di ogni fondamento ontologico. Lungo il percorso di secolarizzazione intrapreso dalla cultura occidentale il concetto classico di rappresentazione soccombe dinanzi ai tentativi di decostruzione del visuale operati dalle ékphrasis novecentesche. Nella deriva scettica subita dal pensiero filosofico contemporaneo la ragione diviene coscienza del limite e l’arte elogio dell’incompiutezza.