Questo volume propone al pubblico italiano un serrato confronto tra lo storico Alberto Melloni e Odo Marquard, filosofo tedesco che per primo ha riflettuto sul problema della "tribunalizzazione della storia", ovvero su quella «trasformazione del sapere storiografico in una sorta di tribunale davanti al quale l’uomo compare per assolvere [o condannare] se stesso nel passato e nel presente». Se Melloni è autore della prima parte del libro, consacrata a un’indagine della categoria di "tribunalizzazione della storia" partendo dall’analisi di casi concreti che hanno attraversato il Novecento, di Marquard vengono invece proposti nel volume due saggi scritti negli anni passati. Partendo dalla questione della teodicea leibniziana, filosofia nuova che si è potuta imporre solo nell’epoca moderna dopo la svolta in virtù della quale Dio stesso viene chiamato in giudizio dall’uomo, Marquard si concentra da una parte sui meccanismi di compensazione che intervengono nel processo giustificatorio della teodicea, per cui il male presente nel mondo è irrisorio rispetto alla sovrabbondanza di bene comunque dato, dall’altra sulla nuova concezione dell’uomo e della storia derivata dalla rivoluzione di pensiero dell’età moderna. Dai concreti influssi di queste categorie sull’agire storico e sociale parte la riflessione di Melloni il quale, in dialogo critico con Marrou, Bloch, Ginzburg, Meier, Miccoli e altri indaga il cambiamento che la tribunalizzazione della storia ha portato nelle discipline storiche contemporanee: quando anche Dio scompare dalla scena del tribunale ed è l’uomo a doversi confrontare con se stesso e con le proprie responsabilità individuali e collettive, il giudizio penale e il giudizio storico tendono a saldarsi; la storia stessa assume, come già nell’antichità classica, quella funzione pubblica che le deriva dall’individuare un ambito di fatti utili a un qualche uso pubblico, divenendo inoltre luogo della memoria. È una storia "che serve" a prendere posizione, a non ripetere gli errori del passato, ad apprendere dalle ferite inferte e subite: storia cara a una contemporaneità, come la nostra, animata da un immenso bisogno di legittimazione e di giustificazione. Questa storia capace di giudicare e di assolvere, ma chiamata innanzitutto a comprendere, è anche lo spazio in cui la ricerca rischia di essere confusa con quell’atto che, smascherando gli errori, rende giustizia alle vittime. Dinanzi a questa prospettiva, l’invito è quello a diffidare di una storia che elimini lo "scarto" e il "residuo", destando essa quello stesso sospetto che susciterebbe «una falegnameria senza trucioli». A questo "scarto" il comprendere e il giudicare devono dunque incessantemente ritornare, anche e soprattutto quando la storia abbia smesso i panni del tribunale pubblico per tornare ad essere tentativo di comprensione delle cose passate e del loro influsso performativo sul presente.