La figura di questo singolare rabbino-filosofo, professore di Ermeneutica alla Freie Universität di Berlino, merita una brevissima presentazione. Dopo aver girovagato nell’immediato dopoguerra tra Stati Uniti e Gerusalemme, si è stabilito a Berlino dove ha insegnato religione ebraica e filosofia fino alla morte nel 1987. In tutti quegli anni non ha mai scritto un libro (a parte la tesi di dottorato) poiché il suo magistero si è esercitato sempre e soltanto attraverso la parola e il dialogo. Anche questo testo non sfugge alla regola: esso è il frutto di un seminario sulla Lettera ai Romani, tenuto ad Heidelberg un mese prima della morte, al quale Taubes si presentò senza un benché minimo appunto scritto. Come riferiscono i curatori, egli “viveva un rapporto simbiotico con il tema trattato; egli non scrive sui suoi argomenti, li incorpora”. Ma c’è un altro elemento che rende Taubes veramente originale, ed è il rapporto intellettuale che ha intrattenuto per tutta la vita con il cristianesimo e di cui questa lettura di Paolo rappresenta, per così dire, la sintesi. Essa si discosta, e in maniera radicale, da tutte le interpretazioni classiche di questo testo capitale del Nuovo Testamento. Taubes si serve di due linee guida: la prima gli viene dalla mistica ebraica e in particolare da quel fenomeno che fu il sabbatianesimo, così come lo racconta il suo maestro Gershom Scholem ne Le grandi correnti della mistica ebraica; la seconda la prende dalla Teologia politica di Carl Schmitt. Secondo Taubes «fede» in Paolo è da intendere come fede nel Messia poiché il suo orizzonte linguistico è quello del messianismo ebraico. Mentre il tema della legge non si riferisce alla legge ebraica ma al nomos dell’impero romano che fonda e legittima la comunità imperiale. In questo senso la Lettera ai Romani è «una teologia politica» in quanto rivendica la sovranità di Cristo come superiore a tutte le sovranità mondane. Ma affinché si affermi, è necessario fondare e legittimare un nuovo popolo di Dio. Questo, secondo Taubes, è l’obiettivo di Paolo il quale, nei cruciali capitoli 9-11, stabilisce un confronto tra sé e Mosè. Come Mosè ha costituito Israele quasi costringendo Dio a tener conto solo della sua fedeltà originaria con il popolo e non badando all’infedeltà di quest’ultimo, anche Paolo si trova in una situazione simile, ma rovesciata: il rifiuto del Messia da parte di Israele diventa lo strumento attraverso il quale Dio stabilisce nella sua alleanza i pagani senza però abbandonare il popolo eletto. Nella seconda parte del libro, trattando della ricezione di Paolo nel moderno, Taubes ricostruisce la vicenda che ha portato a leggere e interpretare il pensiero paolino al di fuori del suo originario legame con la tradizione ebraica.