Nel giugno del 1573 il terzo generale dell’Ordine dei gesuiti, il belga Everardo Mercuriano, chiese a tutti i padri provinciali di raccogliere e inviare a Roma i documenti nei quali i membri della Compagnia raccontavano la storia della propria vocazione. Fu così che tra il volgere del sedicesimo secolo e i primi decenni del diciassettesimo un gran numero di testimonianze affluì presso l’archivio della sede generalizia della Compagnia e vi si depositò fino a costituire un corpus speciale, le Vocationes Illustres, alla cui analisi è dedicato il volume di Adriano Prosperi. Non si tratta di vere e proprie autobiografie – termine che all’epoca non esisteva ancora e a cui si preferiva quello agostiniano di Confessiones – ma di una selezione di episodi esemplari, che documentano le reazioni e le decisioni dei singoli di fronte alla chiamata divina. Una pratica, quella dell’autorappresentazione delle scelte di vita religiosa, che costituisce una caratteristica peculiare dei gesuiti. La messa per iscritto delle memorie individuali aveva due finalità principali: doveva sia contribuire alla redazione di una storia dell’Ordine (il fondo infatti era organizzato cronologicamente e inserito all’interno di una raccolta più ampia denominata Historia Societatis), sia servire al governo di un corpo speciale, accuratamente selezionato dal punto di vista intellettuale e spirituale e pronto all’obbedienza fino alla rinuncia alla propria volontà. Il maggior contributo alle Vocationes giunse da quella che può essere definita la seconda generazione di gesuiti, coloro cioè che si avvicinarono alla Compagnia quando ormai cominciava a espandersi ben al di là dei confini dell’Europa cattolica. Ciò che Prosperi sottolinea è che questi testi, rispondendo a una preciso ordine delle gerarchie ed essendo strutturati secondo schemi costanti, avevano anzitutto una funzione pedagogica e apologetica. Non possono essere quindi letti come testimonianze autobiografiche o come fonti per la ricostruzione della vita affettiva ed emozionale di un gruppo di religiosi dell’età moderna, tentativo che pure è stato compiuto in ambito storiografico. I sentimenti che vi erano espressi, infatti, venivano costantemente filtrati attraverso i desideri dei superiori, che li guidavano e canalizzavano, talvolta attraverso questionari che fungevano da canovaccio.
I gesuiti che si apprestavano a riferire le circostanze della propria vocazione avevano a disposizione un modello fondamentale a cui fare riferimento, la narrazione dell’esperienza spirituale del loro fondatore, Ignazio di Loyola. Noto come Racconto del Pellegrino, il testo ignaziano nacque da una proposta di Girolamo Nadal, tra i suoi primi compagni a Parigi, e Juan de Polanco, suo segretario e collaboratore. Benché all’inizio Ignazio fosse poco propenso ad accettare, nell’agosto del 1553 cambiò idea: la decisione maturò durante una conversazione sul tema della vanagloria con Luis Goncalves de Cámara, tutore e confessore del re del Portogallo, avvenuta nel giardino della villa di Francesco Borgia, il potente nipote di papa Alessandro VI e futuro generale dell’Ordine. Non è una coincidenza che fosse proprio la vanagloria, contro la quale lo stesso Ignazio aveva dovuto a lungo lottare e che tutti i gesuiti dovevano respingere attraverso l’esercizio dell’umiltà, a dare l’avvio a una riflessione sulla vocazione. Si potrebbe definire quella di Ignazio un’eterografia, e per di più sperimentale, dal momento che non fu lui in persona a redigerla, ma dettò le notizie in spagnolo a un ascoltatore portoghese, il quale in seguito riferì ciò che ricordava a scrivani italiani e spagnoli. Ne venne fuori un testo ibrido, in due lingue diverse e frutto di numerose intermediazioni, ma che doveva essere considerato il testo fondativo della Compagnia e a cui doveva essere riconosciuto un valore simile al Testamento di Francesco d’Assisi.
Accanto all’influente modello di Ignazio, Prosperi menziona un altro caso celebre ma molto più tardo: il racconto della vita di Roberto Bellarmino, scritto da lui medesimo. Destinato a essere letto e utilizzato da storici e biografi della Compagnia, il testo di Bellarmino non contiene nessun accenno al contesto religioso o sociopolitico dell’epoca né al ruolo centrale da lui svolto nell’Inquisizione e nell’Indice, al suo coinvolgimento nel dibattito dottrinale con i protestanti, alle discussioni con re Giacomo Stuart sul potere papale o alla polemica con i domenicani su grazia e libero arbitrio. Il testo, scritto in terza persona, si presenta invece come un resoconto di momenti specifici della sua vita, che naturalmente culminano nella vocazione. Bellarmino racconta così dei suoi genitori pii e religiosi (la madre Cinzia Cervini era sorella del papa Marcello II); ricorda la sua prima predica tenuta a quindici anni davanti alla confraternita di Montepulciano in occasione del Venerdì Santo; ricostruisce la decisione di entrare nell’Ordine, l’unico secondo lui in cui non vi era il pericolo di essere attratti dagli onori mondani.
Al di là dei casi paradigmatici di Ignazio e Bellarmino, le scritture dei gesuiti sono accomunate da alcuni topos narrativi. Uno su tutti, il dissidio tra vocazione religiosa e vincoli familiari e affettivi, dissidio che spesso maturava nell’ambito del collegio, luogo fondamentale per la selezione dei membri della Compagnia, e che poteva essere risolto in modo diverso a seconda dell’estrazione sociale dell’aspirante gesuita. Se si apparteneva a una classe sociale medio-bassa, il rischio di uno scontro aperto con l’Ordine era molto alto, se invece si proveniva da una famiglia nobile si preferiva tentare la strada della mediazione e del compromesso, anche facendo valere le proprie influenze e le proprie conoscenze. Si incrociano allora storie drammatiche di famiglie che tentano in tutti i modi di opporsi alle scelte dei figli: come quella di Chiara Serra, una modesta contadina sarda, che non esita a denunciare, senza successo, il generale Claudio Acquaviva per aver costretto suo figlio a frequentare il collegio prima dell’età prevista; o quella del padre di Giovan Battista Cavenago che cerca invano di far desistere il figlio dal proposito di entrare nell’Ordine, seducendolo con le bellezze e le gioie della vita secolare, dal ballo ai banchetti. Tuttavia, quando si decideva di seguire la propria vocazione era necessario recidere ogni legame con la famiglia, anche a costo di un’opposizione serrata e violenta: come nota Prosperi, «non si poteva restare figli dei genitori naturali se si voleva essere buoni gesuiti». La vocazione segnava dunque in modo definitivo un primo e un dopo nelle esistenze di questi giovani. Ed è proprio questo momento di passaggio ad essere raccontato nelle Vocationes Illustres, ricorrendo a modelli e stilemi consolidati che dovevano contribuire a fare dell’Ordine quel corpo «dello stesso colore», cioè coeso e organico, di cui parlava Ignazio nelle Costituzioni.